The way to Tipperary
E’ difficile parlare di Tipperary a chi non ha vissuto almeno una volta il lungo volo per raggiungere se stessi. Forse leggendo e sognando e, a volte, assaporando un pensiero si può capire l’ineffabile.
martedì 2 ottobre 2018
lunedì 26 giugno 2017
Prospettive
Il mio gatto dice che sono cambiato. Non lo dice chiaramente ma lo fa capire col suo comportamento. Lo vedevo un po' intimorito e titubante ogni volta che doveva venirmi vicino ma all'inizio non facevo caso a quella sua espressione interrogativa che mette sul suo muso quando c'è qualcosa che non va.
La cosa e' andata avanti per giorni nella mia consueta indifferenza e la sua crescente ansia che lo costringeva a comportamenti furtivi e selvaggi per non incrociare il mio percorso durante il giorno.
Poi, una sera, al culmine di una giornata surreale che abbiamo trascorso in una solitaria compagnia, mi si avvicina e sbotta un miagolio liberatorio e furibondo: "Tu hai un altro gatto. L'ho capito, sai?". Mi guarda con le lacrime feline pronte a inondare le vibrisse, impavido nel voler ascoltare la rivelazione ma ancora speranzoso, in cuor di micio, che i suoi timori fossero in fondo uno strano scherzo del momento, forse causati dall'età che avanza, forse dal cambio di dieta che il veterinario gli ha imposto per poter continuare a entrare e uscire dalla sua scatola preferita.
Ecco, si, dentro quello sguardo si poteva leggere tutto questo e io so leggere molto bene il mio gatto. Proprio per questo evito di esplodere in una risata liberatoria e lo guardo con un sorriso tenero e disarmante che lo disorienta immediatamente. Gli faccio il gesto di raggiungermi sul divano ma il suo orgoglio felino ha deciso che deve fare il duro ancora per un po'. E così gli chiedo adagio "Dimmi, hai per caso visto in casa un piccolo pacchetto fasciato con carta da regalo?"
Lui, a queste parole, ha un fremito come se lo avessi colto in fallo ma resiste e mi dice: "E se fosse? Lo sai che ho un debole per pacchi e confezioni...".
"Si", aggiungo io "ma questo lo avevo ben nascosto sopra l'armadio, coperto dal tappeto arrotolato".
Inizio a notare una lieve crepa nella sua felina certezza causata dalla consapevolezza che l'armadio fosse ormai zona proibita per la sua età (del micio, non dell'armadio) e che non sapesse come giustificare la sua presenza lassù. Alla fine mi dice: "E' in fondo colpa tua se mi sono dovuto arrampicare fin lassù per cercare la prova del tuo tradimento. E l'ho trovata!"
Si allontana e ritorna dopo poco con i resti del pacchetto sbrindellato, dal quale esce una parte del contenuto che mi incrimina. Me lo mette tra i piedi e con veemenza mi chiede: "E questo come lo giustifichi?"
Raccolgo il pacchetto e libero il contenuto dai suoi brandelli. Guardo il topo giocattolo, acquistato per tempo nel mio negozio preferito e poi osservo divertito il micio che ha ancora quell'espressione di sfida negli occhi e, porgendoglielo gli dico: "Buon compleanno George, non ti stancare troppo inseguendolo".
George
Mi chiamo George, sono il Gatto Di Casa e il mio umano mi
tradisce. L’ho scoperto per caso quando un giorno sono riuscito ad arrampicarmi
fino in cima all’armadio con non poche difficoltà, penso al quarto o quinto
tentativo di salto dopo aver rifatto i calcoli mille volte e rischiato le mie vite rimanenti in arditi
tuffi carpiati verso il nulla. Devo dire che sono molto caparbio nel voler fare
le cose che mi sono proibite; soprattutto quelle “vivamente sconsigliate” dal
veterinario (che un botolo lo morda, quel dannato!). Comunque, alla fine, sono
riuscito a salire sulla vetta e a restarvi immobile per una buona mezz’ora,
giusto il tempo per riparare i danni provocati dalla salita e dai tentativi di
raggiungerla (ecco, si, soprattutto dai tentativi).
Comunque ero nel luogo più alto della casa a godermi un
panorama che solo gli alpinisti mi possono capire quando, effettuato l’ultimo
passo con schiena curva e schiacciati dalla fatica, si ergono ritti a osservare
l’infinito intorno a loro. Stavo appunto
osservando il mio infinito quando noto dietro al fagotto del tappeto invernale un
oggetto di colore inusuale per quei luoghi. Era troppo pulito per essere di
casa da quelle parti e così sono partito alla scoperta del mistero. Mi avvicino
e scopro un pacchetto di piccole dimensioni ma fasciato con una carta
irresistibile che mi ha provocato un brivido di eccitazione che neanche
Mildred, ai suoi tempi, era riuscita a farmi provare.
Pregusto il momento accoccolandomi vicino al pacchetto,
anzi, intorno al pacchetto e decido in un momento di creatività, quale sarebbe
stata l’unghietta che avrebbe aperto il primo varco in quella squisita
confezione. “Ripppp…” che suono magico! La carta si lacera senza opporre
resistenza, quasi fosse stata fatta apposta per quello scopo e lascia
trasparire il contenuto, un qualcosa che sembra pezza o peluche e che,
istintivamente, mi mette in allarme.
Il secondo, terzoquartoquinto graffio liberano il contenuto
che mi appare ormai chiaro: un Topo Giocattolo. Uno di quei magnifici,
irresistibili topi che noi felini amiamo rincorrere senza avere il patema di un
incontro con un topo vero e le sue implicazioni psicologiche. Ma un topo
nascosto in un luogo a me proibito vuol dire che non è per me! Ma allora…!!
Tradimento!
Impiego un’altra buona mezz’ora a riprendere il controllo
(la mezz’ora deve essere il mio tempo standard), che trascorro pensando a come scendere
dall’armadio senza spiaccicarmi sul pavimento. Alla fine riesco nell’intento,
trascinando con me il pacchetto destinato al Fedifrago, con l’intenzione di
portarlo dove il mio umano non l’avrebbe mai trovato.
Passano così i giorni in cui lo osservo di nascosto per
capire cosa si sia rotto nel nostro rapporto; in fondo l’ho sempre fatto
giocare facendogli gli agguati mentre leggeva il giornale, rovesciando per
terra la scatola di croccantini invitandolo a una caccia al tesoro per cercare
quelli infrattati sotto i mobili e che io ero più bravo di lui a scovare;
oppure quando gli nascondevo il mouse del computer (in fondo sono un gatto) e
lo vedevo inventare felice nuove parole gridate a chissà chi mentre girava per
casa.
Ma torniamo a noi, anzi, a lui, il Traditore. Si aggira per
casa con quell’aria tranquilla e indifferente che sicuramente assume per
nascondere il senso di colpa che sicuramente (spero) lo attanaglia. Vedo che i
guarda con aria interrogativa e questo non fa che aumentare le mie sicurezze.
Poi, una sera, non ce l’ho più fatta a vivere in questa
situazione e ho deciso di affrontarlo e gli ho detto: “Tu hai un altro gatto,
l’ho capito, sai?” L’ho detto quasi piangendo ma lui, per fortuna, non se ne è
neanche accorto visto che sono troppo bravo a nascondere i miei pensieri dietro
un muso imperscrutabile.
E succede l’irreparabile: mi sorride. Ecco, a questo non ero
preparato; pensavo di fronteggiare una crisi di rabbia scatenata dalla vergogna
oppure di una violenta negazione dell’evidenza, cose nelle quali gli umani sono
esperti e invece no. Ha sorriso e mi ha anche chiamato a salire con lui sul
divano! Stavo quasi per farlo ma la mia dignità felina è arrivata in tempo e mi
ha salvato dal gesto inconsulto (oddio come avrei voluto farmi fare un grattino
da Lui…) E invece no, sono corso nel mio nascondiglio per prelevare l’Oggetto e
l’ho depositato con alterigia tra i suoi piedi mentre gli chiedevo: “E questo
come lo giustifichi?”
Lui raccoglie il pacchetto sbrindellato, libera il contenuto
osservando quel magnifico Topo; continua a osservarlo per un po’ sopra pensiero
e alla fine me lo porge dicendo una frase che mi fa sprofondare nell’inferno
dei gatti, tanto da diventare rosso rubizzo: “Buon compleanno George, non ti
stancare troppo inseguendolo”.
La clinica Il micio felice.
“Questo gatto è grasso”. Il veterinario è di poche parole ma
quando decide di usarle sa esprimere i concetti con una sintesi mirabile.
Mentre continua a manipolare George che scambia le attenzioni del medico per
una nuova tecnica coccolatoria, magari di provenienza orientale, ripete sopra
pensiero.”Si, questo gatto è decisamente troppo grasso”. “E”, aggiunge, “è
tutta colpa tua” dice tornando alla realtà guardandomi con espressione severa e
accusatoria.
Da quando ti sei messo a cucinare questo gatto è lievitato
come un sofficino, sembra una cima genovese con le zampette. Devi assolutamente
metterlo a dieta e fargli fare del movimento altrimenti, un giorno, entrerà in
una delle sue scatole e non riuscirà più ad uscirne.
Poi rigira George dalla parte giusta, usando la coda come
sistema per riconoscere il “didietro” di una sfera e lo depone (a fatica) nel
trasportino che presto dovrà essere sostituito con un container.
Salutandomi mi dice a bassa voce: “Perché non gli compri uno
di quei giochini nuovi, a forma di topo che gli girano intorno con fare
irrispettoso, lo stuzzicano e scappano, facendosi inseguire per la casa. In
questo modo George potrebbe nuovamente ricordarsi a cosa servono le zampe oltre
a darsi le grattatine di circostanza. Vai nel negozio e fatti consigliare.”
La zampa, articoli per campioni col pelo.
Entro nel negozio e spiego al Commesso la situazione felina
nella quale mi trovo. Lui ascolta con un’aria professionale che neanche il
veterinario ha mai usato, annuendo e facendo battute complici dicendomi come
lui abbia avuto simili esperienze personali. Immagino che un personaggio simile
dica di aver avuto esperienze personali di ogni genere a chiunque si fosse
confidato con lui ma immagino faccia parte del ruolo di venditore.
Io, come cliente, ho lasciato George a casa perché sarebbe
stato imprudente portarlo in un luogo del genere; lo avrebbe preso per una sala
giochi spettacolare, una Gardaland per mici, una personalissima Disneyworld
fatta apposta per lui. Ho preferito non dargli troppe emozioni premature, in
fondo tra pochi giorni sarà il suo decimo compleanno.
Il Commesso ritorna con un oggettino che depone sul tavolo e
mi dice: “Il veterinario aveva ragione, oggi c’è uno spettacolare topo
meccanico che si comporta come uno vero. Anzi, nel classico gioco del gatto col
topo, lui riesce a invertire i ruoli e fare mille diavolerie per smuovere anche
i mici più pigri.”
Quel Coso deve essere mio, decido e così esco con un
pacchetto regalo, confezionato con una carta che, assicura il Commesso, è
studiata apposta per attirare i gatti più indifferenti alle cose del mondo.
David.
Sono un topo. Da sempre, mi pare, poiché non ho ricordi
precedenti la data del mio assemblaggio; Ho ricordi vividi che iniziano subito
dopo la mia programmazione e amo pensare al momento in cui l’operatore mi ha
attribuito il mio numero di serie, mi sono venuti i brividi quando ha eseguito
tutti i test e stabilito che sono un Topo 2.0 in ottima forma e pronto per
affrontare il mondo umano e felino. E’ stato con un momento di apprensione che
ho vissuto il mio confezionamento; non ero preparato a questo ma, ho capito in
seguito, sono stato spento e caduto nel sonno dei giusti finchè non mi sono
svegliato trovandomi in una bizzarra situazione.
La confezione deve essersi aperta e qualcosa deve aver
azionato il mio interruttore risvegliandomi; c’erano molte aspettative sul
Risveglio e si rincorrevano diverse storie tra i miei colleghi topi in attesa
del confezionamento. C’era il mito del Buon Gatto Di Casa, sornione e pacioso,
del Gatto Fantasma, timido e asociale che passava il suo tempo nascosto in
luoghi segreti.
Tante cose mi sarei aspettato ma non un micio con un’aria
arruffata, un’espressione affranta, sull’orlo di una crisi di nervi che
alternava sentimenti di odio e di rimpianto. Subito faccio affidamento sulle
istruzioni chiare e precise contenute nel manuale di psicologia felina che mi
sono state fornite standard. Queste dicono espressamente: “In caso di
situazioni incresciose e insolubili, fingiti morto”. Così ho fatto e il micio,
dopo una buona mezz’ora si è apparentemente quietato.
Pensavo che fosse tutto finito ma invece no. Lui mi arraffa
insieme alla confezione e si precipita giù da un’altezza così paurosa da
produrmi un reset per le troppe emozioni. Mi risveglio con lui addosso e una
zampa dolorante, eseguo un veloce check-up riscontrando che è tutto a posto e
mi rassegno a questa nuova esistenza in un mondo apparentemente ostile.
Passano i giorni e li trascorro nel buio di un luogo dove
arrivano solo suoni ovattati che non mi permettono di capire la situazione ma
sono fiducioso, le mie batterie sono un portento, mi pongo in modalità di
risparmio energetico e attendo.
Dopo una settimana, 12 ore, 34 minuti, 12 secondi e 4 decimi
(non posso fare a meno di essere preciso) vengo ghermito da una furia e deposto
tra due oggetti che identifico come scarpe umane. Bene, un passo avanti,
finalmente. L’umano mi solleva e mi libera dell’imballaggio, e mio osserva: lo
riconosco, era quello del negozio! E’ bello che qualcuno abbia preso in mano
una situazione che, francamente, trovavo difficile da gestire. Mi depone per
terra mentre dice qualcosa al micio.
Capisco che si chiama George e così, ormai preso dal mio
ruolo, vado incontro al destino e dico: “Ciao George, giochiamo?”
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giovedì 25 giugno 2015
L'Isola
Oggi, chiacchierando con un amico di racconti per bambini
e ragazzi, è nata una discussione circa L’isola del tesoro e L’isola che non
c’è. A lui piace l’isola che non c’è; dice che non sa bene il motivo, ma forse
la cosa è legata al mondo magico della nostra infanzia popolato di bambini
mentre l’isola del tesoro ha una storia più avventurosa, più da ragazzi.
La cosa sembrava limitata ai minuti della conversazione,
ma con l’avanzare delle ore un tarlo si è installato nella mia testa e ha cominciato
a stuzzicarmi come solo i tarli sanno fare. Saranno anni che non sentivo
parlare delle due storie che pensavo circoscritte ad una fascia di età dalla
quale ero uscito da tempo. Ora però i due titoli mi stimolano altri pensieri
indipendenti dalle due storie ma legati solamente al significato del titolo.
L’isola che non c’è mi mette istintivamente ansia, la mia
mente razionale rifiuta di parlare del nulla e il solo fatto di immaginarvi una
intera isola mi mette a disagio. E’ più che un miraggio, più inutile della
lotta contro i mulini a vento, desiderare di essere nell’isola che non c’è mi
mette addosso una tristezza legata all’oblio e al pessimismo implicito. Non
posso pensare a qualcosa di bello e contemporaneamente sostenere che non c’è!
Per contro, l’isola del tesoro induce sentimenti positivi,
forse per la parola tesoro o l’euforia di una ricerca di qualcosa di concreto
benché nascosto. Da un lato c’è il mistero e dall’altro un premio reale: da
questo punto di vista, mi dico, come non parteggiare per l’isola del tesoro?
La mattina dopo, alla solita ora che gli amici reputano
folle, esco a fare una passeggiata sul lungomare con il tarlo sempre in
funzione. Le giornate iniziano ad accorciarsi e il clima a farsi più incerto;
inizia ad albeggiare e la residua umidità della notte crea sul mare una leggera
nebbiolina che limita la visibilità nascondendo l’orizzonte ma non le acque
vicine alla riva, normalmente percorse dalle navi che entrano ed escono dal
porto.
Poca gente in giro a quest’ora, ormai ci si conosce tutti
almeno di vista e con alcuni ci si scambia un cenno di saluto incrociandosi.
Una mattina come tante che però mi lascia un senso di fastidio di cui non
riesco a capire la causa. Passeggio come al solito guardando ora il mare e le
navi di passaggio, ora la strada e le poche macchine che la percorrono.
Infine mi rendo conto di cosa mi procuri il fastidio: al
largo, oltre le rotte delle navi, si scorge una forma scura avvolta dalle
nuvole basse e dalla nebbia. Inizialmente pensavo fossero solo nuvole rese
scure dalla mancanza di luce, ma a mano a mano che il mattino avanzava,
l’immagine si faceva sempre più simile a quella di un’isola. Si, un’isola di
fronte al lungomare della città.
Ieri, giornata spettacolare con visibilità notevole, non c’era
nulla. Le solite navi, le solite onde lunghe, forse un fronte nuvoloso
all’orizzonte ma nulla di tutto questo. Rallento il passo come se questo avesse
perso il suo slancio e mi appoggio alla balaustra che divide la passeggiata
dalla spiaggia sottostante. Lo sguardo è fisso su quel punto in mezzo al mare e
non si dà pace per spiegarsene la ragione.
Poco dopo mi passa accanto una ragazza che conosco di
vista, la chiamo e le chiedo se avesse notato quella cosa in mare, indicando
col dito la direzione. Lei, con aria trafelata e il fiato corto, mi chiede cosa
indicassi: forse quella nave che si staglia all’orizzonte? Io le spiego quello
che mi sembra evidente e che ho davanti agli occhi: l’immagine di un’isola,
avvolta dalle nuvole, ma pur sempre una dannata isola sorta dal nulla.
Lei mi guarda sospettosa come se questo mio modo di fare
fosse un modo per attaccare discorso; anche le sue amiche, raggiungendola
confermano di non vedere nulla; io non so che dire e così ci salutiamo senza
convinzione, lei verso la sua corsa e io ancora più confuso a scrutare verso
mare. Che sia suggestione? Eppure, a parte le poche parole sulle isole dette
ieri sera, non mi sono sentito particolarmente coinvolto da questi pensieri
benché non smettessero del tutto di ronzarmi in testa.
Provo a far finta di nulla cercando di distrarmi portando
la concentrazione su cose futili come contare le auto di passaggio nei due
sensi, calcolare quando il sole sarebbe sorto da dietro il monte questa mattina
o seguire i disegni sulle piastrelle della passeggiata. Non so se mi sento più
folle a fare queste cose o a credere nell’esistenza di un’isola che non c’è mai
stata.
Infine incontro Giacomo, il vecchio camminatore del
mattino, la persona più anziana che popola la passeggiata a quell’ora del
giorno. Cammina con passo sicuro nonostante l’età, sempre intabarrato anche in
estate, frutto della sua latente eccentricità. E’ una delle persone che forse
conosco meglio perché ogni mattina invece di incrociarci velocemente, ci
fermiamo qualche momento a raccontarci qualcosa o, semplicemente, a dirci che
ci fa piacere questo incontro prima di iniziare la giornata.
Quando allungo un braccio verso il mare dove altri vedono
il nulla, lui mi guarda stupito e mi dice:
-
Ma allora la vedi anche tu!
Io oltre all’isola guardo lui come fosse un marziano con
cui condivido un’allucinazione. Avevo quasi stabilito di essere io ad avere
problemi di vista o di stress quando anche il mio collega di camminate afferma
di vedere le mie stesse cose e smonta il castello di sicurezze che mi stavo
costruendo.
-
Ma come è possibile che ci sia quell’isola! Non c’è mai
stato nulla in quel punto, solo mare. E le ragazze di prima non sono riuscite a
vedere nulla: mi hanno quasi preso per matto!
-
Quella è un’isola che solo pochi vedono e quasi nessuno
riesce a raggiungere. Io ci sono stato da ragazzo e da allora mi ha sempre
accompagnato durante le camminate del mattino. Spesso mi parla e ci teniamo
compagnia. Sono veramente contento che anche tu riesca a vederla. A me ha
sempre dato grande sollievo e spero che ciò accada anche a te.
Non bastava che vedessi l’isola, ora vengo a sapere che
Giacomo l’ha visitata e persino le parla. Questa non è più una passeggiata del
mattino, è diventata una seduta psichiatrica in cui non si scorge il terapeuta.
Ci salutiamo, lui con aria allegra e io sempre più cupo e
preoccupato. Proseguo la passeggiata più per abitudine che per convinzione e
ormai la luce del sole ha inondato il mondo mentre le auto più numerose
indicano che la città si avvia verso il lavoro. In questo nuovo fragore dei
sensi volgo lo sguardo rassegnato verso il mare e noto che l’immagine si fa più
rarefatta, la nebbiolina con i primi raggi si è ritirata e infine lascia la
visuale nitida sul mare aperto senza più traccia di isole. Neanche uno scoglio.
Non so se la cosa mi tranquillizzi o no. Se l’avessi vista
solo io mi sarei sicuramente dato una risposta razionale pensando a
suggestioni, stress, momenti di stanchezza, qualche scherzo della natura come
accade con i miraggi nel deserto, ma le testimonianze contrastanti delle
persone incontrate alimentano il mio tarlo che a questo punto inizia a
rosicchiare felice.
Fingo di far finta di nulla e torno verso casa in tempo
per la doccia e la colazione prima di mettermi a lavorare. Occupato tutto il
giorno con i miei progetti, non ho più badato al tarlo o forse lui si è
momentaneamente saziato; la sera, tornando a casa da un appuntamento di lavoro,
percorro da solo il lungomare in auto, immerso nel traffico dell’ora di punta;
in coda ho l’occasione per liberare la mente senza le costrizioni
dell’attenzione alla guida. A tratti si intravede il mare e, fermandomi ad un
semaforo proprio tra un’aiuola e l’altra getto lo sguardo istintivamente verso
l’orizzonte, ma la vista si ferma ben prima incontrando il verde della fitta
vegetazione contornata dal biancore della schiuma del mare che si infrange
sulle coste.
L’isola è tornata e, dall’indifferenza che regna sulla
passeggiata, capisco che sono l’unico a vederla; mi perdo in questi pensieri e
blocco il traffico provocando le rimostranze degli automobilisti dietro di me.
Riparto subito e raggiungendo un altro varco dove cerco di proseguire quella
stupita contemplazione. Faccio solo in tempo a vedere un’ombra che svanisce per
lasciare il posto al consueto panorama. L’isola che non c’è ha un comportamento
bizzarro che non mi dà pace. Decido che la mattina dopo avrei approfondito la
cosa con Giacomo che mi sembra l’unica persona in grado di aiutarmi.
Sogno isole tutta la notte e la mattina svegliandomi mi
stupisco di essere nel mio appartamento e non su qualche veliero su una rotta
dei mari del sud. Ricordando il mio proposito della sera, mi precipito sul
lungomare e inizio la mia passeggiata, fermamente intenzionato a parlare con
Giacomo. Però lungo il cammino non vedo l’ombra di isole e quando incontro il
vecchio sono più confuso che mai.
Lo incontro vicino al nostro luogo abituale, intento a
seguire una linea dei disegni tratteggiati sul marciapiedi con aria divertita e
soddisfatta. Ci salutiamo e, dopo avermi spiegato per quale bizzarro motivo
facesse quell’esercizio, mi guarda, capisce cosa mi stia succedendo e mi
chiede:
-
Questa mattina niente isola vero? Lo immaginavo.
Compare solo quando non la cerchi, non è un miraggio ma dipende dalla tua capacità
di isolarti dal mondo, non è una tua fantasia ma una parte di te che si
materializza quando la tua mente non è occupata in mille pensieri del mondo
reale. La puoi chiamare un’esperienza Zen, qualcosa che esiste e
contemporaneamente non esiste. Io ho impiegato anni in questa ricerca
dell’irraggiungibile e ho capito che solo conoscendo bene me stesso riuscivo ad
avere un minimo di controllo della cosa.
-
Ma ieri mi hai detto che ci sei anche stato! Ma come è
possibile approdare su un’isola che dovrebbe essere solo un’emanazione del
proprio pensiero, una forma di allucinazione. Anche se prendessi una barca per
andare lì dove la vedi, alla fine le passeresti attraverso, non so spiegarmi
bene la cosa, ma sicuramente non troveresti terra solida.
Faccio questi discorsi con Giacomo perché, nonostante
l’età, ha una mente lucida come pochi giovani hanno, io ho imparato a
conoscerlo e a giudicarlo una persona assennata. Proprio questo fatto mi mette
a disagio; mi sento nel mezzo di una storia surreale.
I giorni seguenti mi hanno visto fare esperimenti, prove
di concentrazione e momenti in cui tentavo di liberare la mente; a volte con
successo, a volte meno. Proprio quando penso di aver individuato la strada
giusta succede qualcosa per cui devo ricredermi. Sono in un vicolo cieco.
Un giorno però è successa una cosa cui non ho dato
particolare importanza ma che, vista in prospettiva posso dire che ha dato una
svolta alla mia vita e alla mia isola fantasma. Per una curiosa combinazione di
orari, un giorno è capitato che percorressi la passeggiata in un momento
diverso dal mio solito orario per cui le persone che solitamente incrociavo
lungo il percorso, questa volta percorrevano il marciapiede nel mio stesso
senso di marcia. In particolare una signora che avvistavo da lontano e
continuavo ad ammirare via via che si avvicinava fino a salutare con un sorriso
nei pochi secondi in cui ci si incrociava, mi si affianca e mi saluta un po’
trafelata.
-
Buongiorno! Ha cambiato orario questa mattina. Ho
sempre constatato la puntualità con cui ci si incrociava più o meno nello
stesso punto, sorridendo al pensiero delle nostre abitudini evidentemente
metodiche.
Io le rispondo con voce sicura perché, a differenza di lei
che percorre di corsa più volte la passeggiata a mare, io mi limito a camminare
benché con passo spedito. Questo mi permette di esprimermi tutto sommato in
maniera gentile senza espellere pezzi di polmone. Inoltre ho modo di guardarla
meglio da vicino e per me, essendo un po’ miope, la cosa è importante perché
ciò che vedo è veramente una delizia. Cioè: considerando il fatto che dopo
qualche chilometro di corsa una persona non è proprio un fiore, sorvolando su
questo dettaglio e lavorando un po’ di fantasia, arrivo a stabilire che la mia
vicina non è affatto male.
Inizia così una piccola conversazione che però dura meno
di quanto avessi sperato perché mi dice che deve terminare il percorso entro
pochi minuti prima di andare al lavoro. Ci salutiamo e io prendo nota dell’ora
per poter replicare l’incontro il giorno dopo.
Mentre la vedo correre davanti a me inizio a canticchiare
tra me e me un motivetto al ritmo dei miei passi e dopo un po’ la vedo sparire
dietro ad una curva. Andata. Spero domani di azzeccare l’ora giusta. Ma sparita
lei, nel mare compare l’isola. Quasi non pensavo più alla possibilità di
replicare quell’esperienza ma questa mattina, invece ed improvvisamente, eccola
là.
Questa volta non mi faccio coinvolgere e facendo finta di
niente proseguo la mia strada. Se devo diventare matto voglio almeno avere il controllo
fino all’ultimo!
La mattina dopo, stessa ora calcolata maniacalmente, mi
presento in tutto il mio splendore all’appuntamento, o meglio, solo io lo
consideravo un appuntamento, ma possiamo sicuramente sorvolare su questo
particolare. Lei arriva trotterellando e mi si affianca regolando il suo passo
col mio. Stesso saluto di ieri ma un pò complice visto che ha notato che dopo
mesi tutti regolari, oggi ho curiosamente cambiato abitudini. Questa mattina il
percorso insieme dura un po’ di più ma termina nello stesso modo del giorno
prima con una sua fuga che coincide con l’apparire dell’isola.
Da quel giorno in poi, con rare eccezioni legate al clima
autunnale, abbiamo iniziato a camminare, passeggiare, un po’ correre (ma poco)
insieme. Invece di far finta di incontrarci per caso ci siamo dati appuntamento
e iniziato il percorso insieme. Abbiamo anche iniziato a sentirci la sera in
chat, ad ascoltare musiche insieme e, senza la frenesia del mattino, anche a
scambiarci idee più riflessive.
Una sera, parlando dei luoghi dove preferiamo stare, le
dico:
-
Vorrei venirti a trovare, vedere dove abiti. Deve
essere un posto tranquillo.
-
Io vivo nell’Isola che non c’è.
Questa frase innocente mi scatena una reazione che mi dà i
brividi: rivedo in un istante l’isola nella nebbia, le mie conversazioni con
Giacomo e le apparizioni mattutine dopo che ci lasciamo. Sono stordito e cerco
di mettere insieme tutti i sentimenti che mi agitano.
-
Allora se non c’è non posso venire da te, come
facciamo?
-
Potrebbe essere un problema, in effetti. Però dipende
da te e dai tuoi pensieri.
-
Io preferirei vederti nell’isola del tesoro, scoverei
una mappa e la decifrerei per scoprire dove vivi.
-
Non mi troveresti così facilmente. Non mi piace l’isola
del tesoro, non amo le ricerche, le mappe e i tesori. Preferisco i sogni.
-
Ma per me tu rappresenti il tesoro da raggiungere, il
premio al termine della mia ricerca!
-
In questo caso sembra che tu voglia giocare da solo: io
sono il tuo premio, ma chi premia me? No, a certi giochi si gioca in due. Ti
lascio alla tua ricerca, quando ti sarai ritrovato ci sentiremo. Ciao.
Non ci sono rimasto proprio bene, se devo dire la verità.
Il termine “isola che non c’è” continua a mettermi a disagio, la mia mente
razionale rifiuta questa evidente contraddizione. Anche da piccolo non mi è mai
piaciuto il racconto non riuscendo ad immedesimarmi in nessuno dei
protagonisti. Al contrario “l’isola del tesoro” ha sempre rappresentato quello
stimolo di avventura e miraggio che un bambino ama nelle storie. Concretezza e
premio dopo un sacrificio. Come conciliare queste posizioni opposte?
Vado a dormire con la sensazione di quello che, sapendo di
aver ragione, non capisce come un’altra persona possa dubitare dell’evidenza.
Il tarlo si è rimesso in funzione facendo gli straordinari e ingrassando
indecorosamente così la notte passa in sua compagnia.
I giorni successivi una pioggia fastidiosa mi tiene a casa
dalla passeggiata mattutina e, le volte che percorro in auto il lungomare,
dell’isola nessuna traccia. Sembra proprio che le cose siano ritornate come
prima. Una sera, percorrendo i vicoli di ritorno da una cena in trattoria,
incontro Giacomo che, abitando da quelle parti, mi invita a casa sua per un
goccetto. Io accetto volentieri e lo seguo su per una serie infinita di scale
di ardesia che sembrano portare direttamente in paradiso.
Il paradiso è un piccolo appartamento affacciato sui tetti
del centro storico con una vista che spazia da levante a ponente: uno
spettacolo. Mezza città illuminata ai miei piedi e il mare calmo su cui si
riflette la luna. Non proprio lo spettacolo da godere con Giacomo, ma tutto
sommato anche un amico saggio e un bicchierino ci stanno bene.
Anche lui sente la mancanza delle passeggiate del mattino,
ma mi dice che si tiene in forma comunque facendo le scale di casa più volte al
giorno. Gli credo. Nonostante siano passati diversi minuti, ho ancora il
fiatone per la scalata fatta. Si siede in una poltrona rivolta verso la
finestra e mi dice:
-
Questo è il posto dove sogno la sera. Guardo poca televisione
e leggo parecchio, ma quando ci sono giornate come questa lo spettacolo del
mondo è impagabile e guardandolo riesco a sognare ad occhi aperti.
-
Io invece sono sempre preso dal lavoro e ho poco tempo per le distrazioni.
Si, qualche volta quando sono in macchina riesco a rilassarmi, ma a volte le
telefonate arrivano anche lì e allora addio tranquillità.
-
E’ un peccato che la vita ti porti a questa frenesia,
perdi un aspetto prezioso del mondo e di te stesso. Dovresti organizzare
diversamente le tue attività, dedicare più tempo a te, anche semplicemente non
facendo nulla.
Facile per lui dire queste cose, l’età gli consente cose
che io, dovendo lavorare, non posso fare. Gli racconto dei miei avvistamenti
dell’isola, visto che lui è l’unico a potermi capire; la chiamo, così per
gioco, “l’isola del tesoro” chiedendogli se lui quando ci è stato avesse la
mappa del tesoro e lo avesse trovato. Lui però mi dice:
-
Anche io la pensavo come te e per lungo tempo ho
cercato un modo per raggiungerla ed esplorarla. Ero giovane e impulsivo, volevo
la mia dose di avventura ma ogni mio tentativo si risolveva sempre nella
sparizione dell’isola. Solo quando ho perso interesse a raggiungerla sono
riuscito a vederla per quello che è: l’isola rappresenta la nostra fantasia e la
puoi raggiungere solo attraverso essa, la puoi vedere ed avere solo quando non
la desideri con la ragione.
Mi vengono in mente le parole di Chiara: “mi piacciono i
sogni”. Allora capisco che nel mondo del sogno l’isola del tesoro diventa
l’isola che non c’è. Si tratta di un diverso modo di percepire le cose e io,
con la mia visione sempre razionale, continuavo a scontrarmi contro un muro di
impossibilità.
Spesso la mia capacità di pensiero razionale mi rende
presuntuoso e non capisco che altri, quando parlano in modi diversi dai miei,
possano comunque aver ragione. Questo mio modo di affrontare il mondo può
andare bene nel lavoro ma nei confronti delle persone manifesta molti limiti.
Cercavo di fuggire dal mondo reale costruendomene uno
irreale ma sempre fatto con rigore razionale. Invece quello che occorre
veramente per liberare la mente è un mondo surreale in cui le regole di tutti i
giorni possono essere stravolte a piacere. Una totale libertà di pensiero.
Questa sera Giacomo mi ha fatto un regalo impagabile. In
sua compagnia ho capito quello che da solo mi ostinavo a non vedere. Lo saluto con affetto e scendo
le infinite scale per tornare al parcheggio e quindi a casa. Subito cerco
Chiara in chat, ma vista l’ora tarda non ho fortuna. Non mi rimane altro che
sperare nel bel tempo di domani e tentare di vederla al consueto luogo di
incontro sul lungomare.
La mattina, con un po’ di ansia, mi presento in riva al
mare e mentre aspetto Chiara vedo l’isola che mi sorride e i mi sembra
addirittura più vicina. La guardo con occhi diversi, non cerco più di
studiarla, ma mi limito a contemplarla; non cerco di capire perché sia li, ma
accetto la cosa. Mentre passo da una fantasia all’altra sento la voce di Chiara
che mi dice:
-
Allora ti piace l’isola che non c’è! Vedo che sei
cambiato dall’altra sera, altrimenti non potresti vederla. Hai finalmente
capito da dove vengo e ora potremo veramente stare in compagnia. Quando ti
incontravo la mattina capivo che eri tentato dalla ricerca di un mondo diverso,
ma erano ancora troppi i legami che ti impedivano di capire come funzionasse
l’isola. Giacomo è una persona speciale ed è abilissimo a parlare con la gente
e indirizzarla sulla giusta strada.
-
Non sapevo che vi conosceste, sei così giovane e non
pensavo che aveste qualcosa in comune a parte la passeggiata mattutina.
-
Ci siamo incontrati un giorno sull’isola. Lui era molto
più giovane e aveva trovato da solo la strada per venirmi a trovare. Da allora
la saggezza è cresciuta in lui alimentata dalle continue visite e ora, la
mattina, si diverte a trovare e ad aiutare le persone che potrebbero essere
mature per un nuovo modo di vedere il mondo.
Ma come è possibile che Chiara abbia incontrato il vecchio
Giacomo da giovane! Lui avrà più del doppio dei suoi anni! La guardo incredulo
e sto per manifestarle i miei dubbi quando lei mi dice:
-
So a cosa stai pensando. Ma per capire devi uscire dal
tuo mondo reale per immergerti nel mio. Tu mi chiami Chiara, ma io in realtà
sono la Fantasia e abito sull’isola che ormai riesci a vedere se solo ti
abbandoni tra le mie braccia. Ora sai che potremo stare insieme quando lo
vorrai sull’Isola che non c’è.
-
Ti vedrò di nuovo?
-
Si. Ogni volta che sognerai.
martedì 17 dicembre 2013
Cuore
Ho suonato alla porta del tuo
cuore e mi ha risposto la governante; la cosa mi ha piacevolmente sorpreso per
l’aria di casa che ispirava la scena ma, pensando di trovare te ad aprirmi sono
rimasto lì senza parole fissando con aria imbarazzata la gentile signora sulla
porta.
Lei, forse capendo la
situazione, mi ha messo a mio agio invitandomi ad entrare. Probabilmente aveva
sentito parlare di me e si sarà incuriosita e, desiderosa di saperne di più su
questo nuovo arrivato, ha deciso di fare lei stessa gli onori di casa.
Dopo averla fissata per un
tempo forse esagerato, proferisco poche parole di circostanza ed entro
nell’atrio accogliente. Subito sono fatto accomodare nel ventricolo destro,
quello più luminoso mi dice la governante indicandomi una comoda poltrona
vicino ad una finestra con le tendine. Lei preferisce accomodarsi su un globulo
rosso a forma di puf vicino a me ed inizia a guardarmi più profondamente come
volesse studiarmi per capire se fossi la persona giusta per la padrona di casa.
Iniziamo così un balletto di
parole, di cose appena dette e risposte evasive, indizi reciproci per saggiare
le intenzioni e capire la loro bontà. A mano a mano che questo gioco avanza i
temi toccati diventano infiniti e scopriamo di piacerci e i sorrisi reciproci
suggellano questa intesa inaspettata.
Improvvisamente, non so per
quale pulsione, le faccio una carezza sul volto. Lei mi guarda stupita ma gli
occhi luminosi e lucidi mi fanno capire che la cosa e’ stata apprezzata. Dopo
una pausa che mi è sembrata infinita mi ha detto: - Vedi, io non sono la
governante. Sono qui da quando questo cuore ha iniziato a battere e oggi,
sentendo i colpi più forti che mai ho voluto vedere per chi battesse. Io sono
in realtà l’anima e tu mi hai accarezzata come nessuno fino ad ora. Questo
cuore ora è tuo e sarà la tua casa finché lo vorrai.
Dette queste parole, la sua
immagine svanisce e al suo posto appari tu sorridente e bella come mai ti ho
vista.
giovedì 11 luglio 2013
La Macchina
Nemmeno lui sapeva da quanto si trovasse lì. Un luogo per
il quale non esisteva un nome e che era sconosciuto a tutti tranne che al suo
unico abitante. Forse è più corretto dire che Emmett abitasse non in un luogo
ma in un personalissimo stato mentale fuori del tempo. Si, fuori del tempo
perché da sempre si è occupato della Macchina, del suo funzionamento e
manutenzione, evitando i paradossi e accertandosi che il Tempo fluisse nella
giusta quantità e nella corretta Direzione.
Eppure anche per lui c’è stato un inizio. Tutti i suoi
predecessori si erano dedicati con grande cura alla ricerca del proprio
successore, persona dalle caratteristiche estremamente particolari, vista la
natura del lavoro. Ricordava ancora quando una piccola inserzione sul giornale
aveva attirato la sua attenzione:
“Cercasi giovane di buona cultura generale per lavoro a
Tempo Pieno. Non sono richieste competenze particolari poiché è previsto un
corso di formazione specifico. Saranno apprezzati i candidati disposti a trascorrere
lunghi periodi di assenza. Retribuzione interessante”.
Saranno state le parole “Tempo Pieno” ad interessarlo in
un momento in cui andava per la maggiore il part-time oppure la “Retribuzione
interessante”, ma alla fine lui, single un po’ stagionato e senza legami, aveva
risposto all’annuncio chiedendo un colloquio. Come raramente succede, le cose
si sono svolte in fretta e, con sua soddisfazione iniziale, Emmett ottenne il
lavoro.
Solo successivamente si accorse che lavorare alla Macchina
del Tempo comportava un sacrificio imprevisto: quello di dover trascorrere la
propria esistenza fuori dal tempo e quindi anche fuori dal mondo. Ecco spiegata
quella frase dell’annuncio che parlava di “lunghi periodi di assenza”.
Tuttavia, l’importanza dell’incarico e la sensazione di avere tra le mani il
potere di un dio avevano relegato in secondo piano questo aspetto negativo.
La Macchina produceva il tempo. Ne forniva in quantità
esatta per il funzionamento dell’universo e questo succedeva da quando era stata
creata. Praticamente funzionava senza avere necessità di alcun intervento,
tranne che in alcuni rari casi in cui un’anomalia come un buco nero veniva ad
interferire con la quotidianità.
Emmett si sentiva come un vecchio guardiano del faro ai
primi tempi gloriosi della marineria, rinchiuso nel suo eremo perché il mondo
del mare potesse vivere sicuro. Ormai sapeva tutto del funzionamento della Macchina, forse meglio
dei suoi inventori che ormai erano scomparsi da tempo (che paradosso). Anzi,
aveva maturato alcune idee per rendere più versatile l’apparecchio ed
escogitato un modo per ridurne le dimensioni dall’intero universo a una piccola
borsa portatile.
Durante uno dei rari momenti in cui rimetteva piedi nel
mondo per pubblicare il consueto annuncio alla ricerca del proprio successore,
Emmet decise di portare con se la borsa con la nuova Macchina per provarne il
funzionamento. La prima occasione si presentò quando si trovava in coda per
l’inserzione; inizialmente ligio alle regole, si era rassegnato alla lunga fila
che lo precedeva, ma poi, folgorato da un’intuizione, immaginò come le cose
potessero essere diverse se in quella circostanza il tempo passasse più
velocemente!
Subito aprì la borsa e armeggiò con con alcuni comandi,
prima con estrema cautela e poi con maggiore sicurezza, accorgendosi che la
manovra funzionava; in un istante arrivò il suo turno davanti allo sportello.
Con una grande ed evidente eccitazione che stupì l’impiegato, concluse la
commissione e uscì per strada tenendo la borsa stretta tra le mani come il suo
bene più prezioso.
Rientrato nuovamente nella sua non-esistenza ebbe modo di
pensare alle conseguenze immediate di ciò che era riuscito a realizzare e come
trarne vantaggio. Era evidente che la sua macchina riusciva anche a catturare
il tempo oltre che a produrlo così che potesse essere usata sia per coloro che
dicono “vorrei che il tempo non passasse mai” sia per quelli che con angoscia
dicono “mi manca il tempo per…”.
Sempre più spesso si assentò dal lavoro per effettuare
esperimenti su di sé e le altre persone perdendosi in infiniti ragionamenti e
costruendo macchine sempre più piccole e versatili finchè un giorno si accorse
che qualcosa nella grande Macchina non andava per il verso giusto. Le sue
prolungate assenze e la sua distrazione non gli avevano fatto notare i piccoli
indizi che col trascorrere del tempo erano diventati un’anomalia seria.
La sua esperienza però lo aiutò a porre rimedio al
problema più grave, ma prima la preoccupazione e poi l’euforia per aver risolto
il guaio non gli fecero notare altre perturbazioni nate in coincidenza con i
suoi esperimenti nel mondo.
Finalmente, nonostante la sua relativamente giovane età,
riuscì a trovare un successore e a liberarsi di un incarico che negli ultimi
tempi sentiva come una prigione, visti gli sviluppi promettenti della sua
invenzione. Ritornato a casa iniziò a produrre alcune copie della nuova
macchina portatile cui limitò alcune funzioni e ne vendette una a John Harrison
con la quale egli vincerà anni dopo, nel 1764 il premio messo in palio dalla
Commissione per la Longitudine istituita nel 1714 dal Parlamento inglese.
Contemporaneamente fu impegnato nell’anno 789 a trattare
con Carlomagno la fornitura di un certo numero di clessidre e, visto il
successo, intraprese una vera e propria carriera di venditore del Tempo che lo
portò un po’ ovunque nel mondo.
Pochi anni dopo, nel 1582, convinse Gregorio XIII ad usare
i suoi sistemi di misura ma quello, non contento, si montò la testa e
rivoluzionò il calendario dimenticandosi 10 giorni nella conversione dal
vecchio al nuovo. Emmett li prese con se non sopportando che il tempo venisse
sprecato così e, duramente colpito da ciò che le persone possono fare col Tempo
se ne hanno l’occasione, decise di ritirarsi dalla propria attività.
Siamo ormai nel 2000 e, in quel luogo senza tempo Marty,
il successore di Emmett, sta impazzendo davanti ai controlli della Macchina.
Una enorme serie di anomalie nate dagli esperimenti di Emmett vengono segnalate
un po’ ovunque portando il Tempo fuori controllo: gli egiziani sostengono di
essere nell’anno 6236, gli ebrei nel 5760, per i Maya siamo nel 5119, i vecchi
romani (non chiamiamoli antichi perché si offendono) dicono di essere nel 2753,
a babilonia siamo nel 2749, i buddisti sostengono di essere nel 2544, i Copti
sono pochi e non fanno testo ma dicono che sia il 1716 mentre i Musulmani si
ostinano a dimostrare in tutti i modi che siamo nel 1420. Più discreti i Cinesi
che, non suggerendo alcun numero, affermano che siamo nell’Anno del Dragone.
E’ un piacevole pomeriggio di primavera e la bambina
trotterella contenta intorno alla madre, felice di poter uscire a passeggiare
in una bella giornata e speranzosa di potersi gustare il primo gelato della
stagione. Passando davanti ad una vetrina la sua curiosità viene attratta da
ciò che è esposto e rivolta alla madre strilla euforica:
-
Mamma, mamma, me lo compri l’orologio con la faccia di
Topolino?
La mamma guarda incuriosita la vetrina e poi la figlia e
le dice:
-
Ma Alice, cosa te ne fai?
E poi, gettando un’occhiata
alla sua meridiana da polso le dice:
-
Su tesoro, vieni via che si è fatto tardi!
Dopo un po’ di resistenza la bambina, con la promessa del
gelato, si fa portare via e insieme alla madre si allontana dal negozio un po’
fatiscente che in vetrina espone tra mille inutilità un orologio atomico a
prezzi incredibili, ma d’altra parte cosa ci si potrebbe aspettare da un
negozio la cui insegna dice:
Rolex: antichità.
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martedì 29 maggio 2012
Il bicchiere di cristallo
Il bicchiere quasi stenta a ricordare le sue antiche
origini. Sarà l’età o i continui lavaggi con sostanze che non esistevano ancora
alla sua nascita o le mille avventure vissute attraverso il suo secolo di vita.
Ora se ne sta quietamente riposto in una credenza da cucina, una sistemazione
poco nobile se si pensa ai fasti cui era abituato da giovane.
Lui e i suoi fratelli provenivano da una delle migliori
cristallerie di Francia, forse dalle Cristallerie Reali della Champagne, forse
da Baccarat ma l’origine non era importante quanto la famiglia nella quale lui
e i suoi gemelli hanno iniziato una sfavillante e tintinnante carriera.
Ricorda ancora il primo incontro da brivido con le
bollicine fresche e il tocco delicato delle labbra della ragazza cui era
toccato in sorte. Da giovane si divertiva con i fratelli emettendo suoni felici
ad ogni incontro e riflettendo la propria allegria insieme alle luci della
sala.
Poi, col tempo e la maturità, iniziarono i momenti meno
fastosi, poco per volta i fratelli scomparvero
alla sua vista, le occasioni mondane cui era invitato si fecero meno
frequenti e per lui, passato indenne attraverso un turbine di vita, iniziò un
periodo quieto, animato solo dalle poche feste tradizionali.
Un brivido lo percorre ancora oggi al ricordo di un
ragazzino, al quale avevano insegnato a far suonare i bicchieri, che lo aveva
quasi frantumato cercando di estrarne un suono. Alla fine, unico rimasto della
sua famiglia, finì insieme ad altri vetri plebei scompagnati in un angolo della
cucina da dove uscì per ritrovarsi un giorno esposto su una bancarella di
oggetti vecchi che nessuno voleva più.
Il suo destino sembrava ormai segnato e già si vedeva
sballottato da una fiera all’altra, esposto senza cura né riguardo su vecchie
assi di legno. Un giorno però un signore dall’aria sognante incontrò un suo
luccichio e incuriosito si avvicinò per osservare meglio quella fonte di luce
inattesa.
Allungò una mano e lo prese. Dopo un tempo che neanche lui
riusciva a ricordare, il bicchiere provò il tocco di una persona gentile che lo
sapeva apprezzare e non si vergognò di apparire così dimesso e impolverato
perché negli occhi di quella persona vedeva accendersi una luce particolare.
Il signore, un vecchio cuoco, rimase un momento sopra
pensiero, stupito di vedere un oggetto di cristallo così raffinato in mezzo a
tanto ciarpame e lo guardò con gli occhi resi competenti da una vita a contatto
con le cose belle.
Fu cosa di un momento, il bicchiere incartato
frettolosamente da un commerciante che mai ne ha conosciuto il pregio finì
nelle mani del signore che lo ripose delicatamente nella borsa. Insieme
arrivarono a casa dove il cristallo, dopo un delicato ma approfondito lavaggio,
per far bella figura iniziò a brillare come mai aveva fatto.
Sempre giocando con la luce osservò il vecchio mentre
impastava una sfoglia sottile e profumata di uova, lo vide stenderla con una
cura e un’abilità che rasenta la danza, annusando la terrina contenente un
ripieno fragrante.
Improvvisamente il cuoco prese il bicchiere, lo rovesciò
e, tenendolo per il gambo sottile, iniziò ad incidere la pasta con gesto sicuro
e delicato ricavandone piccoli dischi che, una volta accolto il pizzico di
ripieno, con un gesto meraviglioso del vecchio cuoco diventarono cappelletti.
Il bicchiere si stupì, frastornato e quasi indignato per
questo uso improprio cui era stato forzato e, come tutti i bicchieri di
cristallo dal carattere permaloso e suscettibile, iniziò a pensare di aver
toccato il fondo della propria esistenza.
Sempre adombrato da questi pensieri non si accorse di
essere nuovamente preso in mano e si risvegliò solo quando sentì scorrere tutto
intorno un getto di acqua tiepida e il profumo del detersivo che lo lava dalle
piccole tracce di pasta e di farina. L’umore cambiò poi quando venne asciugato
in un morbido lino e posto dignitosamente in piedi sul tavolo.
D’un tratto un colpo secco, un suono familiare, lo
sorprese e un getto fresco e spumeggiante lo inondò riportandolo all’infanzia e
ai ricordi dei mille pizzicorini che le bollicine gli procuravano salendo in
superficie. Si stupì e non si seppe spiegare la nuova situazione se non dopo
aver ascoltato le parole del vecchio cuoco che, dopo un lungo sorso, gli aprono
la mente:
-
Tu ed io faremo grandi cose insieme.
Il vecchio bicchiere ha trovato una nuova casa, forse meno
fastosa ma sicuramente accogliente e sa di essere apprezzato anche se ora la
sua dote più ricercata è quella di avere un diametro come quello che Pellegrino
Artusi suggeriva nel suo libro di ricette. Chissà se il grande cuoco abbia
fatto la conoscenza di qualche suo fratello.
venerdì 25 maggio 2012
Istanbul
Passeggiate pazienti attraverso mondi bizzarri, odori, suoni
e colori, panorami, genti e gatti.
Tempo incerto, acquazzone da diluvio universale, sole cocente e nuvole leggere.
Taxi, tram, metropolitane, autobus, battelli, funicolari e funivie.
Bevande piccanti, panini con pesce e cipolla, tè nero profumato e caffè dello stesso colore.
Kebab e altre carni, verdure freschissime e croccati, frutta meravigliosa e gustosa.
Spremute di arancia da paradiso e fragole succose.
Nomi incomprensibili dal suono musicale.
Albergo da favola in mezzo a strade fantasma della città vecchia a un passo dal porto.
Gente brulicante ad ogni ora e voci che parlano un groviglio di lingue.
Abiti occidentali dal taglio perfetto insieme a lunghi mantelli.
Barbe bianche contornate da tuniche e tailleur.
Venditori di caldarroste, pannocchie arrostite, pani al sesamo e cozze con limone.
Donne meravigliose ed eleganti nei vestiti tradizionali, ragazzi occidentali e balene vestite di nero.
Musicanti di strada e muezzin dalla voce tonante.
Smog nell'aria e aiole profumate.
Acque solcate da mille imbarcazioni danzanti.
Dedali di vie nel gran bazar e i colori accecanti del mercato delle spezie.
Pescatori sul ponte Galata e gabbiani in agguato.
Fortezza d'Europa scalata senza corde per vedere uno scorcio del Mar Nero.
Porta container larghe quasi quanto il Bosforo.
Feste, matrimoni, cerimonie.
Ingorghi stradali inestricabili e autisti pazzi.
Moschee dalle luci soffuse e colori pastello, Topkapi rigoglioso e il diamante indimenticabile.
Canti dei preti ortodossi e riti antichi.
Autobus sgangherati e tram del futuro.
Echi di cammelli indolenti e cavalli scalpitanti nel serraglio della fantasia.
L'aria tiepida della sera.
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