lunedì 26 giugno 2017

Prospettive


Io


Il mio gatto dice che sono cambiato. Non lo dice chiaramente ma lo fa capire col suo comportamento. Lo vedevo un po' intimorito e titubante ogni volta che doveva venirmi vicino ma all'inizio non facevo caso a quella sua espressione interrogativa che mette sul suo muso quando c'è qualcosa che non va.
La cosa e' andata avanti per giorni nella mia consueta indifferenza e la sua crescente ansia che lo costringeva a comportamenti furtivi e selvaggi per non incrociare il mio percorso durante il giorno.

Poi, una sera, al culmine di una giornata surreale che abbiamo trascorso in una solitaria compagnia, mi si avvicina e sbotta un miagolio liberatorio e furibondo: "Tu hai un altro gatto. L'ho capito, sai?". Mi guarda con le lacrime feline pronte a inondare le vibrisse,  impavido nel voler ascoltare la rivelazione ma ancora speranzoso, in cuor di micio, che i suoi timori fossero in fondo uno strano scherzo del momento, forse causati dall'età che avanza, forse dal cambio di dieta che il veterinario gli ha imposto per poter continuare a entrare e uscire dalla sua scatola preferita.

Ecco, si, dentro quello sguardo si poteva leggere tutto questo e io so leggere molto bene il mio gatto. Proprio per questo evito di esplodere in una risata liberatoria e lo guardo con un sorriso tenero e disarmante che lo disorienta immediatamente. Gli faccio il gesto di raggiungermi sul divano ma il suo orgoglio felino ha deciso che deve fare il duro ancora per un po'. E così gli chiedo adagio "Dimmi, hai per caso visto in casa un piccolo pacchetto fasciato con carta da regalo?"
Lui, a queste parole, ha un fremito come se lo avessi colto in fallo ma resiste e mi dice: "E se fosse? Lo sai che ho un debole per pacchi e confezioni...".

"Si", aggiungo io "ma questo lo avevo ben nascosto sopra l'armadio, coperto dal tappeto arrotolato".
Inizio a notare una lieve crepa nella sua felina certezza causata dalla consapevolezza che l'armadio fosse ormai zona proibita per la sua età (del micio, non dell'armadio) e che non sapesse come giustificare la sua presenza lassù. Alla fine mi dice: "E' in fondo colpa tua se mi sono dovuto arrampicare fin lassù per cercare la prova del tuo tradimento. E l'ho trovata!"
Si allontana e ritorna dopo poco con i resti del pacchetto sbrindellato, dal quale esce una parte del contenuto che mi incrimina. Me lo mette tra i piedi e con veemenza mi chiede: "E questo come lo giustifichi?"

Raccolgo il pacchetto e libero il contenuto dai suoi brandelli. Guardo il topo giocattolo, acquistato per tempo nel mio negozio preferito e poi osservo divertito il micio che ha ancora quell'espressione di sfida negli occhi e, porgendoglielo gli dico: "Buon compleanno George, non ti stancare troppo inseguendolo".


George

Mi chiamo George, sono il Gatto Di Casa e il mio umano mi tradisce. L’ho scoperto per caso quando un giorno sono riuscito ad arrampicarmi fino in cima all’armadio con non poche difficoltà, penso al quarto o quinto tentativo di salto dopo aver rifatto i calcoli mille volte  e rischiato le mie vite rimanenti in arditi tuffi carpiati verso il nulla. Devo dire che sono molto caparbio nel voler fare le cose che mi sono proibite; soprattutto quelle “vivamente sconsigliate” dal veterinario (che un botolo lo morda, quel dannato!). Comunque, alla fine, sono riuscito a salire sulla vetta e a restarvi immobile per una buona mezz’ora, giusto il tempo per riparare i danni provocati dalla salita e dai tentativi di raggiungerla (ecco, si, soprattutto dai tentativi).
Comunque ero nel luogo più alto della casa a godermi un panorama che solo gli alpinisti mi possono capire quando, effettuato l’ultimo passo con schiena curva e schiacciati dalla fatica, si ergono ritti a osservare l’infinito intorno a loro.  Stavo appunto osservando il mio infinito quando noto dietro al fagotto del tappeto invernale un oggetto di colore inusuale per quei luoghi. Era troppo pulito per essere di casa da quelle parti e così sono partito alla scoperta del mistero. Mi avvicino e scopro un pacchetto di piccole dimensioni ma fasciato con una carta irresistibile che mi ha provocato un brivido di eccitazione che neanche Mildred, ai suoi tempi, era riuscita a farmi provare.
Pregusto il momento accoccolandomi vicino al pacchetto, anzi, intorno al pacchetto e decido in un momento di creatività, quale sarebbe stata l’unghietta che avrebbe aperto il primo varco in quella squisita confezione. “Ripppp…” che suono magico! La carta si lacera senza opporre resistenza, quasi fosse stata fatta apposta per quello scopo e lascia trasparire il contenuto, un qualcosa che sembra pezza o peluche e che, istintivamente, mi mette in allarme.
Il secondo, terzoquartoquinto graffio liberano il contenuto che mi appare ormai chiaro: un Topo Giocattolo. Uno di quei magnifici, irresistibili topi che noi felini amiamo rincorrere senza avere il patema di un incontro con un topo vero e le sue implicazioni psicologiche. Ma un topo nascosto in un luogo a me proibito vuol dire che non è per me! Ma allora…!! Tradimento!
Impiego un’altra buona mezz’ora a riprendere il controllo (la mezz’ora deve essere il mio tempo standard), che trascorro pensando a come scendere dall’armadio senza spiaccicarmi sul pavimento. Alla fine riesco nell’intento, trascinando con me il pacchetto destinato al Fedifrago, con l’intenzione di portarlo dove il mio umano non l’avrebbe mai trovato.
Passano così i giorni in cui lo osservo di nascosto per capire cosa si sia rotto nel nostro rapporto; in fondo l’ho sempre fatto giocare facendogli gli agguati mentre leggeva il giornale, rovesciando per terra la scatola di croccantini invitandolo a una caccia al tesoro per cercare quelli infrattati sotto i mobili e che io ero più bravo di lui a scovare; oppure quando gli nascondevo il mouse del computer (in fondo sono un gatto) e lo vedevo inventare felice nuove parole gridate a chissà chi mentre girava per casa.
Ma torniamo a noi, anzi, a lui, il Traditore. Si aggira per casa con quell’aria tranquilla e indifferente che sicuramente assume per nascondere il senso di colpa che sicuramente (spero) lo attanaglia. Vedo che i guarda con aria interrogativa e questo non fa che aumentare le mie sicurezze.
Poi, una sera, non ce l’ho più fatta a vivere in questa situazione e ho deciso di affrontarlo e gli ho detto: “Tu hai un altro gatto, l’ho capito, sai?” L’ho detto quasi piangendo ma lui, per fortuna, non se ne è neanche accorto visto che sono troppo bravo a nascondere i miei pensieri dietro un muso imperscrutabile.
E succede l’irreparabile: mi sorride. Ecco, a questo non ero preparato; pensavo di fronteggiare una crisi di rabbia scatenata dalla vergogna oppure di una violenta negazione dell’evidenza, cose nelle quali gli umani sono esperti e invece no. Ha sorriso e mi ha anche chiamato a salire con lui sul divano! Stavo quasi per farlo ma la mia dignità felina è arrivata in tempo e mi ha salvato dal gesto inconsulto (oddio come avrei voluto farmi fare un grattino da Lui…) E invece no, sono corso nel mio nascondiglio per prelevare l’Oggetto e l’ho depositato con alterigia tra i suoi piedi mentre gli chiedevo: “E questo come lo giustifichi?” 
Lui raccoglie il pacchetto sbrindellato, libera il contenuto osservando quel magnifico Topo; continua a osservarlo per un po’ sopra pensiero e alla fine me lo porge dicendo una frase che mi fa sprofondare nell’inferno dei gatti, tanto da diventare rosso rubizzo: “Buon compleanno George, non ti stancare troppo inseguendolo”.

La clinica Il micio felice.

“Questo gatto è grasso”. Il veterinario è di poche parole ma quando decide di usarle sa esprimere i concetti con una sintesi mirabile. Mentre continua a manipolare George che scambia le attenzioni del medico per una nuova tecnica coccolatoria, magari di provenienza orientale, ripete sopra pensiero.”Si, questo gatto è decisamente troppo grasso”. “E”, aggiunge, “è tutta colpa tua” dice tornando alla realtà guardandomi con espressione severa e accusatoria.
Da quando ti sei messo a cucinare questo gatto è lievitato come un sofficino, sembra una cima genovese con le zampette. Devi assolutamente metterlo a dieta e fargli fare del movimento altrimenti, un giorno, entrerà in una delle sue scatole e non riuscirà più ad uscirne.
Poi rigira George dalla parte giusta, usando la coda come sistema per riconoscere il “didietro” di una sfera e lo depone (a fatica) nel trasportino che presto dovrà essere sostituito con un container.
Salutandomi mi dice a bassa voce: “Perché non gli compri uno di quei giochini nuovi, a forma di topo che gli girano intorno con fare irrispettoso, lo stuzzicano e scappano, facendosi inseguire per la casa. In questo modo George potrebbe nuovamente ricordarsi a cosa servono le zampe oltre a darsi le grattatine di circostanza. Vai nel negozio e fatti consigliare.”


La zampa, articoli per campioni col pelo.

Entro nel negozio e spiego al Commesso la situazione felina nella quale mi trovo. Lui ascolta con un’aria professionale che neanche il veterinario ha mai usato, annuendo e facendo battute complici dicendomi come lui abbia avuto simili esperienze personali. Immagino che un personaggio simile dica di aver avuto esperienze personali di ogni genere a chiunque si fosse confidato con lui ma immagino faccia parte del ruolo di venditore.
Io, come cliente, ho lasciato George a casa perché sarebbe stato imprudente portarlo in un luogo del genere; lo avrebbe preso per una sala giochi spettacolare, una Gardaland per mici, una personalissima Disneyworld fatta apposta per lui. Ho preferito non dargli troppe emozioni premature, in fondo tra pochi giorni sarà il suo decimo compleanno.
Il Commesso ritorna con un oggettino che depone sul tavolo e mi dice: “Il veterinario aveva ragione, oggi c’è uno spettacolare topo meccanico che si comporta come uno vero. Anzi, nel classico gioco del gatto col topo, lui riesce a invertire i ruoli e fare mille diavolerie per smuovere anche i mici più pigri.”
Quel Coso deve essere mio, decido e così esco con un pacchetto regalo, confezionato con una carta che, assicura il Commesso, è studiata apposta per attirare i gatti più indifferenti alle cose del mondo.


David.

Sono un topo. Da sempre, mi pare, poiché non ho ricordi precedenti la data del mio assemblaggio; Ho ricordi vividi che iniziano subito dopo la mia programmazione e amo pensare al momento in cui l’operatore mi ha attribuito il mio numero di serie, mi sono venuti i brividi quando ha eseguito tutti i test e stabilito che sono un Topo 2.0 in ottima forma e pronto per affrontare il mondo umano e felino. E’ stato con un momento di apprensione che ho vissuto il mio confezionamento; non ero preparato a questo ma, ho capito in seguito, sono stato spento e caduto nel sonno dei giusti finchè non mi sono svegliato trovandomi in una bizzarra situazione.
La confezione deve essersi aperta e qualcosa deve aver azionato il mio interruttore risvegliandomi; c’erano molte aspettative sul Risveglio e si rincorrevano diverse storie tra i miei colleghi topi in attesa del confezionamento. C’era il mito del Buon Gatto Di Casa, sornione e pacioso, del Gatto Fantasma, timido e asociale che passava il suo tempo nascosto in luoghi segreti. 
Tante cose mi sarei aspettato ma non un micio con un’aria arruffata, un’espressione affranta, sull’orlo di una crisi di nervi che alternava sentimenti di odio e di rimpianto. Subito faccio affidamento sulle istruzioni chiare e precise contenute nel manuale di psicologia felina che mi sono state fornite standard. Queste dicono espressamente: “In caso di situazioni incresciose e insolubili, fingiti morto”. Così ho fatto e il micio, dopo una buona mezz’ora si è apparentemente quietato.
Pensavo che fosse tutto finito ma invece no. Lui mi arraffa insieme alla confezione e si precipita giù da un’altezza così paurosa da produrmi un reset per le troppe emozioni. Mi risveglio con lui addosso e una zampa dolorante, eseguo un veloce check-up riscontrando che è tutto a posto e mi rassegno a questa nuova esistenza in un mondo apparentemente ostile.
Passano i giorni e li trascorro nel buio di un luogo dove arrivano solo suoni ovattati che non mi permettono di capire la situazione ma sono fiducioso, le mie batterie sono un portento, mi pongo in modalità di risparmio energetico e attendo.
Dopo una settimana, 12 ore, 34 minuti, 12 secondi e 4 decimi (non posso fare a meno di essere preciso) vengo ghermito da una furia e deposto tra due oggetti che identifico come scarpe umane. Bene, un passo avanti, finalmente. L’umano mi solleva e mi libera dell’imballaggio, e mio osserva: lo riconosco, era quello del negozio! E’ bello che qualcuno abbia preso in mano una situazione che, francamente, trovavo difficile da gestire. Mi depone per terra mentre dice qualcosa al micio. 
Capisco che si chiama George e così, ormai preso dal mio ruolo, vado incontro al destino e dico: “Ciao George, giochiamo?”

giovedì 25 giugno 2015

L'Isola

Oggi, chiacchierando con un amico di racconti per bambini e ragazzi, è nata una discussione circa L’isola del tesoro e L’isola che non c’è. A lui piace l’isola che non c’è; dice che non sa bene il motivo, ma forse la cosa è legata al mondo magico della nostra infanzia popolato di bambini mentre l’isola del tesoro ha una storia più avventurosa, più da ragazzi.

La cosa sembrava limitata ai minuti della conversazione, ma con l’avanzare delle ore un tarlo si è installato nella mia testa e ha cominciato a stuzzicarmi come solo i tarli sanno fare. Saranno anni che non sentivo parlare delle due storie che pensavo circoscritte ad una fascia di età dalla quale ero uscito da tempo. Ora però i due titoli mi stimolano altri pensieri indipendenti dalle due storie ma legati solamente al significato del titolo.

L’isola che non c’è mi mette istintivamente ansia, la mia mente razionale rifiuta di parlare del nulla e il solo fatto di immaginarvi una intera isola mi mette a disagio. E’ più che un miraggio, più inutile della lotta contro i mulini a vento, desiderare di essere nell’isola che non c’è mi mette addosso una tristezza legata all’oblio e al pessimismo implicito. Non posso pensare a qualcosa di bello e contemporaneamente sostenere che non c’è!

Per contro, l’isola del tesoro induce sentimenti positivi, forse per la parola tesoro o l’euforia di una ricerca di qualcosa di concreto benché nascosto. Da un lato c’è il mistero e dall’altro un premio reale: da questo punto di vista, mi dico, come non parteggiare per l’isola del tesoro?

La mattina dopo, alla solita ora che gli amici reputano folle, esco a fare una passeggiata sul lungomare con il tarlo sempre in funzione. Le giornate iniziano ad accorciarsi e il clima a farsi più incerto; inizia ad albeggiare e la residua umidità della notte crea sul mare una leggera nebbiolina che limita la visibilità nascondendo l’orizzonte ma non le acque vicine alla riva, normalmente percorse dalle navi che entrano ed escono dal porto.

Poca gente in giro a quest’ora, ormai ci si conosce tutti almeno di vista e con alcuni ci si scambia un cenno di saluto incrociandosi. Una mattina come tante che però mi lascia un senso di fastidio di cui non riesco a capire la causa. Passeggio come al solito guardando ora il mare e le navi di passaggio, ora la strada e le poche macchine che la percorrono.

Infine mi rendo conto di cosa mi procuri il fastidio: al largo, oltre le rotte delle navi, si scorge una forma scura avvolta dalle nuvole basse e dalla nebbia. Inizialmente pensavo fossero solo nuvole rese scure dalla mancanza di luce, ma a mano a mano che il mattino avanzava, l’immagine si faceva sempre più simile a quella di un’isola. Si, un’isola di fronte al lungomare della città.

Ieri, giornata spettacolare con visibilità notevole, non c’era nulla. Le solite navi, le solite onde lunghe, forse un fronte nuvoloso all’orizzonte ma nulla di tutto questo. Rallento il passo come se questo avesse perso il suo slancio e mi appoggio alla balaustra che divide la passeggiata dalla spiaggia sottostante. Lo sguardo è fisso su quel punto in mezzo al mare e non si dà pace per spiegarsene la ragione.

Poco dopo mi passa accanto una ragazza che conosco di vista, la chiamo e le chiedo se avesse notato quella cosa in mare, indicando col dito la direzione. Lei, con aria trafelata e il fiato corto, mi chiede cosa indicassi: forse quella nave che si staglia all’orizzonte? Io le spiego quello che mi sembra evidente e che ho davanti agli occhi: l’immagine di un’isola, avvolta dalle nuvole, ma pur sempre una dannata isola sorta dal nulla.

Lei mi guarda sospettosa come se questo mio modo di fare fosse un modo per attaccare discorso; anche le sue amiche, raggiungendola confermano di non vedere nulla; io non so che dire e così ci salutiamo senza convinzione, lei verso la sua corsa e io ancora più confuso a scrutare verso mare. Che sia suggestione? Eppure, a parte le poche parole sulle isole dette ieri sera, non mi sono sentito particolarmente coinvolto da questi pensieri benché non smettessero del tutto di ronzarmi in testa.

Provo a far finta di nulla cercando di distrarmi portando la concentrazione su cose futili come contare le auto di passaggio nei due sensi, calcolare quando il sole sarebbe sorto da dietro il monte questa mattina o seguire i disegni sulle piastrelle della passeggiata. Non so se mi sento più folle a fare queste cose o a credere nell’esistenza di un’isola che non c’è mai stata.

Infine incontro Giacomo, il vecchio camminatore del mattino, la persona più anziana che popola la passeggiata a quell’ora del giorno. Cammina con passo sicuro nonostante l’età, sempre intabarrato anche in estate, frutto della sua latente eccentricità. E’ una delle persone che forse conosco meglio perché ogni mattina invece di incrociarci velocemente, ci fermiamo qualche momento a raccontarci qualcosa o, semplicemente, a dirci che ci fa piacere questo incontro prima di iniziare la giornata.

Quando allungo un braccio verso il mare dove altri vedono il nulla, lui mi guarda stupito e mi dice:

-          Ma allora la vedi anche tu!

Io oltre all’isola guardo lui come fosse un marziano con cui condivido un’allucinazione. Avevo quasi stabilito di essere io ad avere problemi di vista o di stress quando anche il mio collega di camminate afferma di vedere le mie stesse cose e smonta il castello di sicurezze che mi stavo costruendo.

-          Ma come è possibile che ci sia quell’isola! Non c’è mai stato nulla in quel punto, solo mare. E le ragazze di prima non sono riuscite a vedere nulla: mi hanno quasi preso per matto!

-          Quella è un’isola che solo pochi vedono e quasi nessuno riesce a raggiungere. Io ci sono stato da ragazzo e da allora mi ha sempre accompagnato durante le camminate del mattino. Spesso mi parla e ci teniamo compagnia. Sono veramente contento che anche tu riesca a vederla. A me ha sempre dato grande sollievo e spero che ciò accada anche a te.

Non bastava che vedessi l’isola, ora vengo a sapere che Giacomo l’ha visitata e persino le parla. Questa non è più una passeggiata del mattino, è diventata una seduta psichiatrica in cui non si scorge il terapeuta.

Ci salutiamo, lui con aria allegra e io sempre più cupo e preoccupato. Proseguo la passeggiata più per abitudine che per convinzione e ormai la luce del sole ha inondato il mondo mentre le auto più numerose indicano che la città si avvia verso il lavoro. In questo nuovo fragore dei sensi volgo lo sguardo rassegnato verso il mare e noto che l’immagine si fa più rarefatta, la nebbiolina con i primi raggi si è ritirata e infine lascia la visuale nitida sul mare aperto senza più traccia di isole. Neanche uno scoglio.

Non so se la cosa mi tranquillizzi o no. Se l’avessi vista solo io mi sarei sicuramente dato una risposta razionale pensando a suggestioni, stress, momenti di stanchezza, qualche scherzo della natura come accade con i miraggi nel deserto, ma le testimonianze contrastanti delle persone incontrate alimentano il mio tarlo che a questo punto inizia a rosicchiare felice.

Fingo di far finta di nulla e torno verso casa in tempo per la doccia e la colazione prima di mettermi a lavorare. Occupato tutto il giorno con i miei progetti, non ho più badato al tarlo o forse lui si è momentaneamente saziato; la sera, tornando a casa da un appuntamento di lavoro, percorro da solo il lungomare in auto, immerso nel traffico dell’ora di punta; in coda ho l’occasione per liberare la mente senza le costrizioni dell’attenzione alla guida. A tratti si intravede il mare e, fermandomi ad un semaforo proprio tra un’aiuola e l’altra getto lo sguardo istintivamente verso l’orizzonte, ma la vista si ferma ben prima incontrando il verde della fitta vegetazione contornata dal biancore della schiuma del mare che si infrange sulle coste.

L’isola è tornata e, dall’indifferenza che regna sulla passeggiata, capisco che sono l’unico a vederla; mi perdo in questi pensieri e blocco il traffico provocando le rimostranze degli automobilisti dietro di me. Riparto subito e raggiungendo un altro varco dove cerco di proseguire quella stupita contemplazione. Faccio solo in tempo a vedere un’ombra che svanisce per lasciare il posto al consueto panorama. L’isola che non c’è ha un comportamento bizzarro che non mi dà pace. Decido che la mattina dopo avrei approfondito la cosa con Giacomo che mi sembra l’unica persona in grado di aiutarmi.

Sogno isole tutta la notte e la mattina svegliandomi mi stupisco di essere nel mio appartamento e non su qualche veliero su una rotta dei mari del sud. Ricordando il mio proposito della sera, mi precipito sul lungomare e inizio la mia passeggiata, fermamente intenzionato a parlare con Giacomo. Però lungo il cammino non vedo l’ombra di isole e quando incontro il vecchio sono più confuso che mai.

Lo incontro vicino al nostro luogo abituale, intento a seguire una linea dei disegni tratteggiati sul marciapiedi con aria divertita e soddisfatta. Ci salutiamo e, dopo avermi spiegato per quale bizzarro motivo facesse quell’esercizio, mi guarda, capisce cosa mi stia succedendo e mi chiede:

-          Questa mattina niente isola vero? Lo immaginavo. Compare solo quando non la cerchi, non è un miraggio ma dipende dalla tua capacità di isolarti dal mondo, non è una tua fantasia ma una parte di te che si materializza quando la tua mente non è occupata in mille pensieri del mondo reale. La puoi chiamare un’esperienza Zen, qualcosa che esiste e contemporaneamente non esiste. Io ho impiegato anni in questa ricerca dell’irraggiungibile e ho capito che solo conoscendo bene me stesso riuscivo ad avere un minimo di controllo della cosa.
-          Ma ieri mi hai detto che ci sei anche stato! Ma come è possibile approdare su un’isola che dovrebbe essere solo un’emanazione del proprio pensiero, una forma di allucinazione. Anche se prendessi una barca per andare lì dove la vedi, alla fine le passeresti attraverso, non so spiegarmi bene la cosa, ma sicuramente non troveresti terra solida.

Faccio questi discorsi con Giacomo perché, nonostante l’età, ha una mente lucida come pochi giovani hanno, io ho imparato a conoscerlo e a giudicarlo una persona assennata. Proprio questo fatto mi mette a disagio; mi sento nel mezzo di una storia surreale.

I giorni seguenti mi hanno visto fare esperimenti, prove di concentrazione e momenti in cui tentavo di liberare la mente; a volte con successo, a volte meno. Proprio quando penso di aver individuato la strada giusta succede qualcosa per cui devo ricredermi. Sono in un vicolo cieco.

Un giorno però è successa una cosa cui non ho dato particolare importanza ma che, vista in prospettiva posso dire che ha dato una svolta alla mia vita e alla mia isola fantasma. Per una curiosa combinazione di orari, un giorno è capitato che percorressi la passeggiata in un momento diverso dal mio solito orario per cui le persone che solitamente incrociavo lungo il percorso, questa volta percorrevano il marciapiede nel mio stesso senso di marcia. In particolare una signora che avvistavo da lontano e continuavo ad ammirare via via che si avvicinava fino a salutare con un sorriso nei pochi secondi in cui ci si incrociava, mi si affianca e mi saluta un po’ trafelata.

-          Buongiorno! Ha cambiato orario questa mattina. Ho sempre constatato la puntualità con cui ci si incrociava più o meno nello stesso punto, sorridendo al pensiero delle nostre abitudini evidentemente metodiche.

Io le rispondo con voce sicura perché, a differenza di lei che percorre di corsa più volte la passeggiata a mare, io mi limito a camminare benché con passo spedito. Questo mi permette di esprimermi tutto sommato in maniera gentile senza espellere pezzi di polmone. Inoltre ho modo di guardarla meglio da vicino e per me, essendo un po’ miope, la cosa è importante perché ciò che vedo è veramente una delizia. Cioè: considerando il fatto che dopo qualche chilometro di corsa una persona non è proprio un fiore, sorvolando su questo dettaglio e lavorando un po’ di fantasia, arrivo a stabilire che la mia vicina non è affatto male.

Inizia così una piccola conversazione che però dura meno di quanto avessi sperato perché mi dice che deve terminare il percorso entro pochi minuti prima di andare al lavoro. Ci salutiamo e io prendo nota dell’ora per poter replicare l’incontro il giorno dopo.

Mentre la vedo correre davanti a me inizio a canticchiare tra me e me un motivetto al ritmo dei miei passi e dopo un po’ la vedo sparire dietro ad una curva. Andata. Spero domani di azzeccare l’ora giusta. Ma sparita lei, nel mare compare l’isola. Quasi non pensavo più alla possibilità di replicare quell’esperienza ma questa mattina, invece ed improvvisamente, eccola là.

Questa volta non mi faccio coinvolgere e facendo finta di niente proseguo la mia strada. Se devo diventare matto voglio almeno avere il controllo fino all’ultimo!

La mattina dopo, stessa ora calcolata maniacalmente, mi presento in tutto il mio splendore all’appuntamento, o meglio, solo io lo consideravo un appuntamento, ma possiamo sicuramente sorvolare su questo particolare. Lei arriva trotterellando e mi si affianca regolando il suo passo col mio. Stesso saluto di ieri ma un pò complice visto che ha notato che dopo mesi tutti regolari, oggi ho curiosamente cambiato abitudini. Questa mattina il percorso insieme dura un po’ di più ma termina nello stesso modo del giorno prima con una sua fuga che coincide con l’apparire dell’isola.

Da quel giorno in poi, con rare eccezioni legate al clima autunnale, abbiamo iniziato a camminare, passeggiare, un po’ correre (ma poco) insieme. Invece di far finta di incontrarci per caso ci siamo dati appuntamento e iniziato il percorso insieme. Abbiamo anche iniziato a sentirci la sera in chat, ad ascoltare musiche insieme e, senza la frenesia del mattino, anche a scambiarci idee più riflessive.

Una sera, parlando dei luoghi dove preferiamo stare, le dico:

-          Vorrei venirti a trovare, vedere dove abiti. Deve essere un posto tranquillo.
-          Io vivo nell’Isola che non c’è.

Questa frase innocente mi scatena una reazione che mi dà i brividi: rivedo in un istante l’isola nella nebbia, le mie conversazioni con Giacomo e le apparizioni mattutine dopo che ci lasciamo. Sono stordito e cerco di mettere insieme tutti i sentimenti che mi agitano.

-          Allora se non c’è non posso venire da te, come facciamo?
-          Potrebbe essere un problema, in effetti. Però dipende da te e dai tuoi pensieri.
-          Io preferirei vederti nell’isola del tesoro, scoverei una mappa e la decifrerei per scoprire dove vivi.
-          Non mi troveresti così facilmente. Non mi piace l’isola del tesoro, non amo le ricerche, le mappe e i tesori. Preferisco i sogni.
-          Ma per me tu rappresenti il tesoro da raggiungere, il premio al termine della mia ricerca!
-          In questo caso sembra che tu voglia giocare da solo: io sono il tuo premio, ma chi premia me? No, a certi giochi si gioca in due. Ti lascio alla tua ricerca, quando ti sarai ritrovato ci sentiremo. Ciao.

Non ci sono rimasto proprio bene, se devo dire la verità. Il termine “isola che non c’è” continua a mettermi a disagio, la mia mente razionale rifiuta questa evidente contraddizione. Anche da piccolo non mi è mai piaciuto il racconto non riuscendo ad immedesimarmi in nessuno dei protagonisti. Al contrario “l’isola del tesoro” ha sempre rappresentato quello stimolo di avventura e miraggio che un bambino ama nelle storie. Concretezza e premio dopo un sacrificio. Come conciliare queste posizioni opposte?

Vado a dormire con la sensazione di quello che, sapendo di aver ragione, non capisce come un’altra persona possa dubitare dell’evidenza. Il tarlo si è rimesso in funzione facendo gli straordinari e ingrassando indecorosamente così la notte passa in sua compagnia.

I giorni successivi una pioggia fastidiosa mi tiene a casa dalla passeggiata mattutina e, le volte che percorro in auto il lungomare, dell’isola nessuna traccia. Sembra proprio che le cose siano ritornate come prima. Una sera, percorrendo i vicoli di ritorno da una cena in trattoria, incontro Giacomo che, abitando da quelle parti, mi invita a casa sua per un goccetto. Io accetto volentieri e lo seguo su per una serie infinita di scale di ardesia che sembrano portare direttamente in paradiso.

Il paradiso è un piccolo appartamento affacciato sui tetti del centro storico con una vista che spazia da levante a ponente: uno spettacolo. Mezza città illuminata ai miei piedi e il mare calmo su cui si riflette la luna. Non proprio lo spettacolo da godere con Giacomo, ma tutto sommato anche un amico saggio e un bicchierino ci stanno bene.

Anche lui sente la mancanza delle passeggiate del mattino, ma mi dice che si tiene in forma comunque facendo le scale di casa più volte al giorno. Gli credo. Nonostante siano passati diversi minuti, ho ancora il fiatone per la scalata fatta. Si siede in una poltrona rivolta verso la finestra e mi dice:

-          Questo è il posto dove sogno la sera. Guardo poca televisione e leggo parecchio, ma quando ci sono giornate come questa lo spettacolo del mondo è impagabile e guardandolo riesco a sognare ad occhi aperti.
-          Io invece sono sempre preso dal  lavoro e ho poco tempo per le distrazioni. Si, qualche volta quando sono in macchina riesco a rilassarmi, ma a volte le telefonate arrivano anche lì e allora addio tranquillità.
-          E’ un peccato che la vita ti porti a questa frenesia, perdi un aspetto prezioso del mondo e di te stesso. Dovresti organizzare diversamente le tue attività, dedicare più tempo a te, anche semplicemente non facendo nulla.

Facile per lui dire queste cose, l’età gli consente cose che io, dovendo lavorare, non posso fare. Gli racconto dei miei avvistamenti dell’isola, visto che lui è l’unico a potermi capire; la chiamo, così per gioco, “l’isola del tesoro” chiedendogli se lui quando ci è stato avesse la mappa del tesoro e lo avesse trovato. Lui però mi dice:

-          Anche io la pensavo come te e per lungo tempo ho cercato un modo per raggiungerla ed esplorarla. Ero giovane e impulsivo, volevo la mia dose di avventura ma ogni mio tentativo si risolveva sempre nella sparizione dell’isola. Solo quando ho perso interesse a raggiungerla sono riuscito a vederla per quello che è: l’isola rappresenta la nostra fantasia e la puoi raggiungere solo attraverso essa, la puoi vedere ed avere solo quando non la desideri con la ragione.

Mi vengono in mente le parole di Chiara: “mi piacciono i sogni”. Allora capisco che nel mondo del sogno l’isola del tesoro diventa l’isola che non c’è. Si tratta di un diverso modo di percepire le cose e io, con la mia visione sempre razionale, continuavo a scontrarmi contro un muro di impossibilità.

Spesso la mia capacità di pensiero razionale mi rende presuntuoso e non capisco che altri, quando parlano in modi diversi dai miei, possano comunque aver ragione. Questo mio modo di affrontare il mondo può andare bene nel lavoro ma nei confronti delle persone manifesta molti limiti.

Cercavo di fuggire dal mondo reale costruendomene uno irreale ma sempre fatto con rigore razionale. Invece quello che occorre veramente per liberare la mente è un mondo surreale in cui le regole di tutti i giorni possono essere stravolte a piacere. Una totale libertà di pensiero.

Questa sera Giacomo mi ha fatto un regalo impagabile. In sua compagnia ho capito quello che da solo mi ostinavo  a non vedere. Lo saluto con affetto e scendo le infinite scale per tornare al parcheggio e quindi a casa. Subito cerco Chiara in chat, ma vista l’ora tarda non ho fortuna. Non mi rimane altro che sperare nel bel tempo di domani e tentare di vederla al consueto luogo di incontro sul lungomare.

La mattina, con un po’ di ansia, mi presento in riva al mare e mentre aspetto Chiara vedo l’isola che mi sorride e i mi sembra addirittura più vicina. La guardo con occhi diversi, non cerco più di studiarla, ma mi limito a contemplarla; non cerco di capire perché sia li, ma accetto la cosa. Mentre passo da una fantasia all’altra sento la voce di Chiara che mi dice:

-          Allora ti piace l’isola che non c’è! Vedo che sei cambiato dall’altra sera, altrimenti non potresti vederla. Hai finalmente capito da dove vengo e ora potremo veramente stare in compagnia. Quando ti incontravo la mattina capivo che eri tentato dalla ricerca di un mondo diverso, ma erano ancora troppi i legami che ti impedivano di capire come funzionasse l’isola. Giacomo è una persona speciale ed è abilissimo a parlare con la gente e indirizzarla sulla giusta strada.
-          Non sapevo che vi conosceste, sei così giovane e non pensavo che aveste qualcosa in comune a parte la passeggiata mattutina.
-          Ci siamo incontrati un giorno sull’isola. Lui era molto più giovane e aveva trovato da solo la strada per venirmi a trovare. Da allora la saggezza è cresciuta in lui alimentata dalle continue visite e ora, la mattina, si diverte a trovare e ad aiutare le persone che potrebbero essere mature per un nuovo modo di vedere il mondo.

Ma come è possibile che Chiara abbia incontrato il vecchio Giacomo da giovane! Lui avrà più del doppio dei suoi anni! La guardo incredulo e sto per manifestarle i miei dubbi quando lei mi dice:

-          So a cosa stai pensando. Ma per capire devi uscire dal tuo mondo reale per immergerti nel mio. Tu mi chiami Chiara, ma io in realtà sono la Fantasia e abito sull’isola che ormai riesci a vedere se solo ti abbandoni tra le mie braccia. Ora sai che potremo stare insieme quando lo vorrai sull’Isola che non c’è.
-          Ti vedrò di nuovo?
-          Si. Ogni volta che sognerai.


martedì 17 dicembre 2013

Cuore


Ho suonato alla porta del tuo cuore e mi ha risposto la governante; la cosa mi ha piacevolmente sorpreso per l’aria di casa che ispirava la scena ma, pensando di trovare te ad aprirmi sono rimasto lì senza parole fissando con aria imbarazzata la gentile signora sulla porta.

Lei, forse capendo la situazione, mi ha messo a mio agio invitandomi ad entrare. Probabilmente aveva sentito parlare di me e si sarà incuriosita e, desiderosa di saperne di più su questo nuovo arrivato, ha deciso di fare lei stessa gli onori di casa.

Dopo averla fissata per un tempo forse esagerato, proferisco poche parole di circostanza ed entro nell’atrio accogliente. Subito sono fatto accomodare nel ventricolo destro, quello più luminoso mi dice la governante indicandomi una comoda poltrona vicino ad una finestra con le tendine. Lei preferisce accomodarsi su un globulo rosso a forma di puf vicino a me ed inizia a guardarmi più profondamente come volesse studiarmi per capire se fossi la persona giusta per la padrona di casa.

Iniziamo così un balletto di parole, di cose appena dette e risposte evasive, indizi reciproci per saggiare le intenzioni e capire la loro bontà. A mano a mano che questo gioco avanza i temi toccati diventano infiniti e scopriamo di piacerci e i sorrisi reciproci suggellano questa intesa inaspettata.

Improvvisamente, non so per quale pulsione, le faccio una carezza sul volto. Lei mi guarda stupita ma gli occhi luminosi e lucidi mi fanno capire che la cosa e’ stata apprezzata. Dopo una pausa che mi è sembrata infinita mi ha detto: - Vedi, io non sono la governante. Sono qui da quando questo cuore ha iniziato a battere e oggi, sentendo i colpi più forti che mai ho voluto vedere per chi battesse. Io sono in realtà l’anima e tu mi hai accarezzata come nessuno fino ad ora. Questo cuore ora è tuo e sarà la tua casa finché lo vorrai.

Dette queste parole, la sua immagine svanisce e al suo posto appari tu sorridente e bella come mai ti ho vista.


giovedì 11 luglio 2013

La Macchina




Nemmeno lui sapeva da quanto si trovasse lì. Un luogo per il quale non esisteva un nome e che era sconosciuto a tutti tranne che al suo unico abitante. Forse è più corretto dire che Emmett abitasse non in un luogo ma in un personalissimo stato mentale fuori del tempo. Si, fuori del tempo perché da sempre si è occupato della Macchina, del suo funzionamento e manutenzione, evitando i paradossi e accertandosi che il Tempo fluisse nella giusta quantità e nella corretta Direzione.

Eppure anche per lui c’è stato un inizio. Tutti i suoi predecessori si erano dedicati con grande cura alla ricerca del proprio successore, persona dalle caratteristiche estremamente particolari, vista la natura del lavoro. Ricordava ancora quando una piccola inserzione sul giornale aveva attirato la sua attenzione:

“Cercasi giovane di buona cultura generale per lavoro a Tempo Pieno. Non sono richieste competenze particolari poiché è previsto un corso di formazione specifico. Saranno apprezzati i candidati disposti a trascorrere lunghi periodi di assenza. Retribuzione interessante”.

Saranno state le parole “Tempo Pieno” ad interessarlo in un momento in cui andava per la maggiore il part-time oppure la “Retribuzione interessante”, ma alla fine lui, single un po’ stagionato e senza legami, aveva risposto all’annuncio chiedendo un colloquio. Come raramente succede, le cose si sono svolte in fretta e, con sua soddisfazione iniziale, Emmett ottenne il lavoro.

Solo successivamente si accorse che lavorare alla Macchina del Tempo comportava un sacrificio imprevisto: quello di dover trascorrere la propria esistenza fuori dal tempo e quindi anche fuori dal mondo. Ecco spiegata quella frase dell’annuncio che parlava di “lunghi periodi di assenza”. Tuttavia, l’importanza dell’incarico e la sensazione di avere tra le mani il potere di un dio avevano relegato in secondo piano questo aspetto negativo.

La Macchina produceva il tempo. Ne forniva in quantità esatta per il funzionamento dell’universo e questo succedeva da quando era stata creata. Praticamente funzionava senza avere necessità di alcun intervento, tranne che in alcuni rari casi in cui un’anomalia come un buco nero veniva ad interferire con la quotidianità.

Emmett si sentiva come un vecchio guardiano del faro ai primi tempi gloriosi della marineria, rinchiuso nel suo eremo perché il mondo del mare potesse vivere sicuro. Ormai sapeva tutto del  funzionamento della Macchina, forse meglio dei suoi inventori che ormai erano scomparsi da tempo (che paradosso). Anzi, aveva maturato alcune idee per rendere più versatile l’apparecchio ed escogitato un modo per ridurne le dimensioni dall’intero universo a una piccola borsa portatile.

Durante uno dei rari momenti in cui rimetteva piedi nel mondo per pubblicare il consueto annuncio alla ricerca del proprio successore, Emmet decise di portare con se la borsa con la nuova Macchina per provarne il funzionamento. La prima occasione si presentò quando si trovava in coda per l’inserzione; inizialmente ligio alle regole, si era rassegnato alla lunga fila che lo precedeva, ma poi, folgorato da un’intuizione, immaginò come le cose potessero essere diverse se in quella circostanza il tempo passasse più velocemente!

Subito aprì la borsa e armeggiò con con alcuni comandi, prima con estrema cautela e poi con maggiore sicurezza, accorgendosi che la manovra funzionava; in un istante arrivò il suo turno davanti allo sportello. Con una grande ed evidente eccitazione che stupì l’impiegato, concluse la commissione e uscì per strada tenendo la borsa stretta tra le mani come il suo bene più prezioso.

Rientrato nuovamente nella sua non-esistenza ebbe modo di pensare alle conseguenze immediate di ciò che era riuscito a realizzare e come trarne vantaggio. Era evidente che la sua macchina riusciva anche a catturare il tempo oltre che a produrlo così che potesse essere usata sia per coloro che dicono “vorrei che il tempo non passasse mai” sia per quelli che con angoscia dicono “mi manca il tempo per…”.

Sempre più spesso si assentò dal lavoro per effettuare esperimenti su di sé e le altre persone perdendosi in infiniti ragionamenti e costruendo macchine sempre più piccole e versatili finchè un giorno si accorse che qualcosa nella grande Macchina non andava per il verso giusto. Le sue prolungate assenze e la sua distrazione non gli avevano fatto notare i piccoli indizi che col trascorrere del tempo erano diventati un’anomalia seria.

La sua esperienza però lo aiutò a porre rimedio al problema più grave, ma prima la preoccupazione e poi l’euforia per aver risolto il guaio non gli fecero notare altre perturbazioni nate in coincidenza con i suoi esperimenti nel mondo.

Finalmente, nonostante la sua relativamente giovane età, riuscì a trovare un successore e a liberarsi di un incarico che negli ultimi tempi sentiva come una prigione, visti gli sviluppi promettenti della sua invenzione. Ritornato a casa iniziò a produrre alcune copie della nuova macchina portatile cui limitò alcune funzioni e ne vendette una a John Harrison con la quale egli vincerà anni dopo, nel 1764 il premio messo in palio dalla Commissione per la Longitudine istituita nel 1714 dal Parlamento inglese.

Contemporaneamente fu impegnato nell’anno 789 a trattare con Carlomagno la fornitura di un certo numero di clessidre e, visto il successo, intraprese una vera e propria carriera di venditore del Tempo che lo portò un po’ ovunque nel mondo.

Pochi anni dopo, nel 1582, convinse Gregorio XIII ad usare i suoi sistemi di misura ma quello, non contento, si montò la testa e rivoluzionò il calendario dimenticandosi 10 giorni nella conversione dal vecchio al nuovo. Emmett li prese con se non sopportando che il tempo venisse sprecato così e, duramente colpito da ciò che le persone possono fare col Tempo se ne hanno l’occasione, decise di ritirarsi dalla propria attività.

Siamo ormai nel 2000 e, in quel luogo senza tempo Marty, il successore di Emmett, sta impazzendo davanti ai controlli della Macchina. Una enorme serie di anomalie nate dagli esperimenti di Emmett vengono segnalate un po’ ovunque portando il Tempo fuori controllo: gli egiziani sostengono di essere nell’anno 6236, gli ebrei nel 5760, per i Maya siamo nel 5119, i vecchi romani (non chiamiamoli antichi perché si offendono) dicono di essere nel 2753, a babilonia siamo nel 2749, i buddisti sostengono di essere nel 2544, i Copti sono pochi e non fanno testo ma dicono che sia il 1716 mentre i Musulmani si ostinano a dimostrare in tutti i modi che siamo nel 1420. Più discreti i Cinesi che, non suggerendo alcun numero, affermano che siamo nell’Anno del Dragone.

E’ un piacevole pomeriggio di primavera e la bambina trotterella contenta intorno alla madre, felice di poter uscire a passeggiare in una bella giornata e speranzosa di potersi gustare il primo gelato della stagione. Passando davanti ad una vetrina la sua curiosità viene attratta da ciò che è esposto e rivolta alla madre strilla euforica:

-          Mamma, mamma, me lo compri l’orologio con la faccia di Topolino?

La mamma guarda incuriosita la vetrina e poi la figlia e le dice:

-          Ma Alice, cosa te ne fai?

E poi, gettando un’occhiata alla sua meridiana da polso le dice:

-          Su tesoro, vieni via che si è fatto tardi!

Dopo un po’ di resistenza la bambina, con la promessa del gelato, si fa portare via e insieme alla madre si allontana dal negozio un po’ fatiscente che in vetrina espone tra mille inutilità un orologio atomico a prezzi incredibili, ma d’altra parte cosa ci si potrebbe aspettare da un negozio la cui insegna dice:

Rolex: antichità.

 

martedì 29 maggio 2012

Il bicchiere di cristallo



















Il bicchiere quasi stenta a ricordare le sue antiche origini. Sarà l’età o i continui lavaggi con sostanze che non esistevano ancora alla sua nascita o le mille avventure vissute attraverso il suo secolo di vita. Ora se ne sta quietamente riposto in una credenza da cucina, una sistemazione poco nobile se si pensa ai fasti cui era abituato da giovane.

Lui e i suoi fratelli provenivano da una delle migliori cristallerie di Francia, forse dalle Cristallerie Reali della Champagne, forse da Baccarat ma l’origine non era importante quanto la famiglia nella quale lui e i suoi gemelli hanno iniziato una sfavillante e tintinnante carriera.

Ricorda ancora il primo incontro da brivido con le bollicine fresche e il tocco delicato delle labbra della ragazza cui era toccato in sorte. Da giovane si divertiva con i fratelli emettendo suoni felici ad ogni incontro e riflettendo la propria allegria insieme alle luci della sala.

Poi, col tempo e la maturità, iniziarono i momenti meno fastosi, poco per volta i fratelli scomparvero  alla sua vista, le occasioni mondane cui era invitato si fecero meno frequenti e per lui, passato indenne attraverso un turbine di vita, iniziò un periodo quieto, animato solo dalle poche feste tradizionali.

Un brivido lo percorre ancora oggi al ricordo di un ragazzino, al quale avevano insegnato a far suonare i bicchieri, che lo aveva quasi frantumato cercando di estrarne un suono. Alla fine, unico rimasto della sua famiglia, finì insieme ad altri vetri plebei scompagnati in un angolo della cucina da dove uscì per ritrovarsi un giorno esposto su una bancarella di oggetti vecchi che nessuno voleva più.

Il suo destino sembrava ormai segnato e già si vedeva sballottato da una fiera all’altra, esposto senza cura né riguardo su vecchie assi di legno. Un giorno però un signore dall’aria sognante incontrò un suo luccichio e incuriosito si avvicinò per osservare meglio quella fonte di luce inattesa.

Allungò una mano e lo prese. Dopo un tempo che neanche lui riusciva a ricordare, il bicchiere provò il tocco di una persona gentile che lo sapeva apprezzare e non si vergognò di apparire così dimesso e impolverato perché negli occhi di quella persona vedeva accendersi una luce particolare.

Il signore, un vecchio cuoco, rimase un momento sopra pensiero, stupito di vedere un oggetto di cristallo così raffinato in mezzo a tanto ciarpame e lo guardò con gli occhi resi competenti da una vita a contatto con le cose belle.

Fu cosa di un momento, il bicchiere incartato frettolosamente da un commerciante che mai ne ha conosciuto il pregio finì nelle mani del signore che lo ripose delicatamente nella borsa. Insieme arrivarono a casa dove il cristallo, dopo un delicato ma approfondito lavaggio, per far bella figura iniziò a brillare come mai aveva fatto.

Sempre giocando con la luce osservò il vecchio mentre impastava una sfoglia sottile e profumata di uova, lo vide stenderla con una cura e un’abilità che rasenta la danza, annusando la terrina contenente un ripieno fragrante.

Improvvisamente il cuoco prese il bicchiere, lo rovesciò e, tenendolo per il gambo sottile, iniziò ad incidere la pasta con gesto sicuro e delicato ricavandone piccoli dischi che, una volta accolto il pizzico di ripieno, con un gesto meraviglioso del vecchio cuoco diventarono cappelletti.
 
Il bicchiere si stupì, frastornato e quasi indignato per questo uso improprio cui era stato forzato e, come tutti i bicchieri di cristallo dal carattere permaloso e suscettibile, iniziò a pensare di aver toccato il fondo della propria esistenza.

Sempre adombrato da questi pensieri non si accorse di essere nuovamente preso in mano e si risvegliò solo quando sentì scorrere tutto intorno un getto di acqua tiepida e il profumo del detersivo che lo lava dalle piccole tracce di pasta e di farina. L’umore cambiò poi quando venne asciugato in un morbido lino e posto dignitosamente in piedi sul tavolo.

D’un tratto un colpo secco, un suono familiare, lo sorprese e un getto fresco e spumeggiante lo inondò riportandolo all’infanzia e ai ricordi dei mille pizzicorini che le bollicine gli procuravano salendo in superficie. Si stupì e non si seppe spiegare la nuova situazione se non dopo aver ascoltato le parole del vecchio cuoco che, dopo un lungo sorso, gli aprono la mente:

-                     Tu ed io faremo grandi cose insieme.
 
Il vecchio bicchiere ha trovato una nuova casa, forse meno fastosa ma sicuramente accogliente e sa di essere apprezzato anche se ora la sua dote più ricercata è quella di avere un diametro come quello che Pellegrino Artusi suggeriva nel suo libro di ricette. Chissà se il grande cuoco abbia fatto la conoscenza di qualche suo fratello.



venerdì 25 maggio 2012

Istanbul

















Passeggiate pazienti attraverso mondi bizzarri, odori, suoni e colori, panorami, genti e gatti.

Tempo incerto, acquazzone da diluvio universale, sole cocente e nuvole leggere.

Taxi, tram, metropolitane, autobus, battelli, funicolari e funivie.

Bevande piccanti, panini con pesce e cipolla, tè nero profumato e caffè dello stesso colore.

Kebab e altre carni, verdure freschissime e croccati, frutta meravigliosa e gustosa.

Spremute di arancia da paradiso e fragole succose.

Nomi incomprensibili dal suono musicale.

Albergo da favola in mezzo a strade fantasma della città vecchia a un passo dal porto.

Gente brulicante ad ogni ora e voci che parlano un groviglio di lingue.

Abiti occidentali dal taglio perfetto insieme a lunghi mantelli.

Barbe bianche contornate da tuniche e tailleur.

Venditori di caldarroste, pannocchie arrostite, pani al sesamo e cozze con limone.

Donne meravigliose ed eleganti nei vestiti tradizionali, ragazzi occidentali e balene vestite di nero.

Musicanti di strada e muezzin dalla voce tonante.

Smog nell'aria e aiole profumate.

Acque solcate da mille imbarcazioni danzanti.

Dedali di vie nel gran bazar e i colori accecanti del mercato delle spezie.

Pescatori sul ponte Galata e gabbiani in agguato.

Fortezza d'Europa scalata senza corde per vedere uno scorcio del Mar Nero.

Porta container larghe quasi quanto il Bosforo.

Feste, matrimoni, cerimonie.

Ingorghi stradali inestricabili e autisti pazzi.

Moschee dalle luci soffuse e colori pastello, Topkapi rigoglioso e il diamante indimenticabile.

Canti dei preti ortodossi e riti antichi.

Autobus sgangherati e tram del futuro.

Echi di cammelli indolenti e cavalli scalpitanti nel serraglio della fantasia.

L'aria tiepida della sera.